giovedì 15 dicembre 2016

L'Albero di Natale e l'asse del mondo



Non è un caso se, tra i simboli del Natale, il più rappresentato, anche fuori dai confini del mondo cristiano, sia proprio l’albero di Natale. Non c’è luogo del mondo in cui non  vi sia, almeno nella capitale, un albero di Natale addobbato a festa. Lo ritroviamo anche in paesi molto lontani dal nostro occidente così come nelle case dei più laici fra ebrei o musulmani.


Dicevo che non è un caso perché l’albero è un simbolo praticamente presente in ogni cultura, spesso allestito proprio in occasione del periodo che stiamo venendo a vivere: il solstizio d’inverno.
Questa data ha sempre rappresentato un momento importante nel ciclo delle stagioni. Da un lato era il giorno più corto dell’anno ma, d’altra parte, rappresentava anche l’inizio di una nuova fase. Dopo il momento più oscuro, più buio, dopo che le tenebre avevano preso il sopravvento, tornava la luce. Il solstizio era un tempo di morte ma anche di rinascita.
E decorare alberi, alberi da frutto ma principalmente sempreverdi, per la loro connotazione ancora più positiva, era un’abitudine di molte culture, in questo periodo dell’anno. I Celti usavano addobbare alberi proprio per il solstizio d’inverno. E così i Romani ornavano le loro case con rami di pino durante le Calende di Gennaio.
 Un primo significato di questa usanza è sicuramente l’analogia fra la natura sempreverde della pianta e la vita dell’anno che muore e rinasce. Anno non come lo intendiamo noi moderni, una semplice scansione pratica del tempo, ma come ciclo delle stagioni e del conseguente corso degli astri in cielo.
D’altra parte però l’albero è un simbolo che si ritrova in moltissime culture non per forza legato al tema del solstizio ma al tema della vita. Per i popoli indoeuropei ma anche per i cinesi o le genti di lingua ugro finnica, l’albero è spesso il simbolo dell’asse del mondo, il pilastro portante dell’intero universo e dei suoi mondi.
Prima di considerare il mito più ricco da questo punto di vista, quello dell’Yggdrasill, vorrei soffermarmi su altri alberi “famosi” nella storia della mitologia.
Abbiamo già trattato della ricorrenza, nelle storie dell’antica Grecia, di donne – albero come Dafne o Mirra. Proprio in Grecia, troviamo uno dei culti più antichi, risalente a un periodo pre - ellenico e poi adattato alla religione olimpica, quello della quercia di Dodona. Ci troviamo in Epiro, nella sede di un santuario dedicato, in epoca storica, a Zeus e a Dione, un nome generico per indicare una divinità femminile che nasconde il riferimento alla dea madre.  Che fosse, in origine, un culto riservato a una dea, è chiaro dal fatto che i ministri di Dodona erano soprattutto donne, sacerdotesse chiamate colombe. Esse vivevano all’aperto e interpretavano il volere della divinità dal fruscio delle foglie dell’albero sacro. In questo caso ci troviamo di fronte a un mito legato, ancora una volta, all’antica dea madre venerata presso i popoli mediterranei. È  chiaro indizio anche il fatto che il culto si svolgeva all’aperto così come doveva avvenire anche a Creta.

Ma nella Grecia classica manca qualsiasi riferimento all’albero come pilastro dell’universo. È invece nel folklore moderno che compare questo concetto. Per i Greci e i Ciprioti in particolare esistono delle grottesche creature, a volte simili a lupi, altre a scimmie, chiamate Kallikantzaroi. Questi mostriciattoli trascorrono l’intero anno sotto terra rosicchiando appunto l’albero che regge la terra. Durante i dodici giorni del Natale essi escono in superficie, approfittando del periodo di oscurità, per seminare il panico e la follia fra la gente. In realtà, ogni loro sforzo è vano poiché, proprio a Natale, l’albero si rigenera completamente grazie all’intervento di Cristo.


Questo mito ha, probabilmente, origini turche così come il nome di questi strani goblins. In ogni caso, ha molto in comune con altri miti, ben più antichi e articolati, che troviamo soprattutto nel nord Europa. Intanto l’albero è visto come l’asse del mondo. In secondo luogo, la sua vita riprende proprio a ridosso del solstizio d’inverno nei dodici giorni cruciali della Yuletide.
Yule è un termine dall’etimologia incerta. Potrebbe derivare dall’antico norvegese e significare ruota. Il senso di ruota del tempo sarebbe chiarissimo e andrebbe ad arricchire di significato questo periodo dell’anno in cui la ruota delle stagioni torna a risalire dal buio verso la luce. Ma potrebbe anche essere più antico delle parlate indoeuropee. In ogni caso non molto è rimasto, in termini di documenti scritti, sui festeggiamenti e i riti di questa importante ricorrenza. Di certo, era prescritto riposo e divertimento e si sacrificava un maiale al dio Freyr. Quel poco che sappiamo, lo dobbiamo in gran parte ai monaci che evangelizzarono queste genti e cercarono di recuperare alcuni dei simboli pagani all’interno della festa del Natale. Tra questi l’agrifoglio, il vischio e naturalmente l’albero sempreverde o carico di frutti.


È proprio fra i popoli germanici che troviamo i miti più ricchi e complessi sull’albero. I Sassoni veneravano l’Irminsul, un totem che rappresentava un albero stilizzato a due braccia che simboleggiava il pilastro cosmico come base della vita nell’universo. Questi monumenti dovevano essere molto frequenti in tutto il nord Europa ma vennero abbattuti già al tempo di Carlo Magno nelle sue guerre contro i Sassoni.

 Insieme a questi monumenti di pietra, dovevano essere presenti anche alberi vivi come la quercia di Thor distrutta da San Bonifacio per dimostrare la falsità degli dei pagani. Si racconta nel mito che, poiché il dio norreno non intervenne a fermare la distruzione della sua pianta, i pagani si convertirono all’istante. Una leggenda più elaborata narra che dietro quella quercia comparve un giovane abete sempreverde, simbolo a un tempo della nuova religione cristiana e della trinità, come suggerisce la sua forma triangolare.


Ma l’Irminsul sassone è stretto parente dell’Yggdrasill, l’albero cosmico dei vichinghi. Come abbiamo già anticipato, esso è il più complesso fra gli alberi sia per struttura che per i miti che gli ruotano intorno.
Intanto il nome significherebbe “cavallo di Odino” e divenne poi sinonimo di patibolo dato che, su questo albero, Odino rimase appeso/impiccato per nove giorni e nove notti, trafitto al costato da una lancia, sacrificando se stesso a se stesso per guadagnare la conoscenza universale.  Il nove non è una cifra a caso ma corrisponde esattamente al numero dei mondi che l’albero stesso attraversa e sostiene che vanno dal freddo di Asgard al fuoco di Hel. E, al tempo stesso, nove è anche il numero dei livelli dell’esistenza, i gradi di conoscenza che Odino ha dovuto assorbire durante il suo sacrificio. 


Dunque l’Yggdrasill è il fondamento non solo dello spazio ma anche del tempo. Infatti da una delle sue radici sgorga la fonte di Udhr, che si trova a Midgard. Da essa attingono le Norne per conoscere il destino degli uomini. Un’altra fonte, Mimir, scorre nello Jotunheim, la terra dei giganti, e ad essa si abbeverò Odino per ricevere la sapienza. Nelle tetre regioni dei trapassati c’è infine la terza radice dell’albero, continuamente rosicchiata da rettili velenosi a capo dei quali c’è nidhhöggr, un dragone terribile che infligge immenso dolore al grande frassino. Suo scopo, come quello dei Kallikantzaroi ciprioti, è abbatterlo definitivamente.


 Quando Yggdrasill cadrà, trascinerà con sé tutto il creato dando inizio alla fine del mondo. Questa caduta, questa distruzione apocalittica che, nella mitologia norrena, viene identificata con il Ragnarok, non deve essere però intesa come definitiva. Essa è solo il segno di un cambiamento a livello celeste. Attraverso l’immagine dell’asse del mondo infatti i popoli antichi cercavano di visualizzare il comportamento della Terra rispetto all’orbita dell’ellittica, in poche parole cercavano di spiegare, in un linguaggio mitico, la precessione degli equinozi che, a intervalli di migliaia di anni, cambia il cielo e i punti di riferimento astronomici e segna l’inizio di una nuova era. In questo senso l’albero non solo simboleggia lo scorrere del tempo terrestre con il ciclo delle stagioni ma anche lo scorrere del tempo dell’intero universo e l’Yggdrasill, con la sua immensa struttura e i suoi mondi, indica proprio la giusta direzione nell’interpretare questo archetipo così ricorrente nelle mitologie più diverse. Ne è una prova il fatto che nell’Edda poetica viene definito “albero misuratore”, appunto l’Yggdrasill, nel linguaggio dei bardi, è un gigantesco calendario astronomico.
Gli studiosi si sono chiesti come mai, di tutti i popoli indoeuropei, solo quelli del nord Europa possiedono il concetto di asse del mondo legato alla figura di un albero. Questo perché, a differenza degli indoeuropei che si stanziarono nel Mediterraneo, Germani, Sassoni e Vichinghi, vennero in contatto con le genti ugro finniche che abitavano le regioni settentrionali, dal Baltico alla Siberia, prima dell’arrivo degli slavi.

 La religione di questi popoli era di tipo sciamanica e quindi fortemente legata agli elementi della natura. Lo stesso Odino, in alcuni tratti, presenta aspetti sciamanici (le sue abilità stregonesche, la capacità di trasformarsi in animale, il suo vagabondare fra gli uomini sotto mentite spoglie). Ed è proprio nelle mitologie di questi antichi popoli, come hanno anche dimostrato De Santillana e Von Deschen in “Il mulino di Amleto” che l’albero è simbolo dell’asse del mondo.
Durante i primi anni dell’era cristiana, all’albero si preferì l’agrifoglio che, con le sue spine, preannunciava la passione di Cristo. Solo nel Medioevo si cominciò a rivalutare il paganesimo come religione anticipatrice, anche se inconsapevole, di concetti cristiani. Nell’Europa del Nord, quindi, a Natale si ricominciò a illuminare le notti d’inverno, le dodici notti di Yule, con l’albero. L’usanza, tipica dei paesi di lingua tedesca, approdò in Inghilterra grazie al consorte della regina Vittoria, Alberto di Sassonia- Coburgo – Gotha.


Da lì, il suo uso si diffuse in tutto il mondo fino ad arrivare, in via ufficiale, a piazza San Pietro nel 1982. Secondo la simbologia cristiana, l’albero è simbolo della rinascita di Cristo e della sua croce, fatta di legno appunto. Secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, Adamo moribondo avrebbe ricevuto, come segno di conforto, un ramoscello dell’albero della vita dall’Arcangelo Gabriele e da esso sarebbe poi nato quell’albero dal cui legno sarebbe stata costruita la croce di Cristo. La luce di cui gli alberi di Natale sono ricchi rappresenta essa stessa Cristo che, con la sua venuta, libera il mondo dalle tenebre.
Ma rappresenta anche la volta celeste, le stelle fisse, le costellazioni e i pianeti che l’asse del mondo sostiene da tempi immemorabili, immobile, eterno, gigantesco e fragile, pronto a morire e a rinascere come ogni anno, nel solstizio d’inverno.


lunedì 28 novembre 2016

La mela nell'immaginario occidentale

Quando Alan Turing decise di mettere fine alla propria vita, scelse di ispirarsi alla sua fiaba preferita. Prese una mela rossa, le iniettò il veleno, cianuro di potassio, e la morse. In questo modo, come Biancaneve, cadde in un sonno eterno senza però la speranza che un principe sarebbe venuto a svegliarlo. Turing mise fine alla propria esistenza dopo essere stato condannato alla castrazione chimica mediante assunzione di massicce dosi di estrogeni. A causa dell’innaturale trasformazione del proprio corpo e delle continue umiliazioni subite, Turing giunse alla decisione di suicidarsi. Eppure Alan Turing fu un esperto informatico grazie al quale venne creata la macchina Enigma, in grado di decifrare i codici segreti nazisti. Quindi, diede un contributo importante alla buona riuscita della seconda guerra mondiale e al futuro sviluppo dell’informatica.


Fu proprio per rendere omaggio a questo sfortunato scienziato, vittima delle leggi omofobiche del suo tempo, che Steve Jobs decise di scegliere, come logo della sua azienda informatica, una mela addentata. Una mela, dunque, un frutto allo stesso tempo del tutto innocente con cui si preparano torte casalinghe ma anche un simbolo molto spesso associato al peccato e alla morte.
La mela compare presto nell’immaginario occidentale, ben prima che le storie dell’Antico Testamento approdassero sulle coste europee. Fu una mela d’oro a provocare la guerra di Troia, ad esempio. Eris, la dea della discordia, volle vendicarsi del mancato invito al banchetto di nozze fra Teti e Peleo, i futuri genitori di Achille. Per questo motivo, si introdusse di nascosto alla festa e fece rotolare di fronte a Zeus un pomo tutto d’oro con su incisa la fatidica scritta: “Alla più bella”.


 Zeus non volle prendersi la responsabilità della scelta e venne designato un giovane pastorello i cui illustri natali erano ancora sconosciuti ai più. Il pastorello non era altri che Paride, abbandonato sul Monte Ida appena nato per gli oscuri presagi che ne avevano funestato la nascita. Fu Paride a donare la mela d’oro alla dea Afrodite, dopo una gara a cui parteciparono anche Era e Atena. Afrodite convinse il giovane promettendogli la mano della donna più bella del mondo, Elena, incurante del fatto che la fanciulla era già sposata con un altro uomo. La mela in questo mito è quindi legata al tema del connubio fra uomo e donna e all’amore sensuale rappresentato dalla dea Afrodite.


Ma il mito più rappresentativo e complesso che riguarda questo frutto è quello dei pomi delle Esperidi. Anche questi frutti vengono descritti come dorati e crescevano in un giardino remoto, collocato nell’estremo occidente, ai confini del mondo abitato. Le ninfe che si prendevano cura di questo giardino erano figlie della Notte. Chiaramente sia la collocazione del luogo mitico che la parentela di queste dee richiama il tema della morte. Il meraviglioso albero era stato donato dalla madre Gea ai suoi figli Era e Zeus per il loro matrimonio ed era custodito da un grosso serpente o drago, Ladone, che aveva cento teste.


 Quando l’albero veniva minacciato da una presenza estranea queste teste iniziavano a cantare tutte insieme cento melodie diverse. Fu Eracle, costretto da Euristeo, a rubare tre di questi frutti e a sconfiggere il serpente Ladone il quale poi venne trasformato in una costellazione. Si tratta di una delle più grandi del cielo boreale. Il serpente, con le sue lunghe spire, sfiora entrambe le Orse e veniva paragonato dagli antichi a un fiume come fa lo stesso Virgilio. Non per nulla il suo nome ha a che fare con l’acqua e il concetto di umido. Il mito, raccontato in svariate versioni, prevede a volte l’intervento di Atlante, il titano condannato a sostenere per sempre la volta celeste.


In seguito, le mele d’oro ricompaiono nel mito di Atalanta e Melanione. La ragazza che non voleva sposarsi sottoponeva i suoi pretendenti a una gara di corsa che si concludeva, ogni volta, con la morte dello sconfitto. Melanione, innamorato della fanciulla, riuscì a rallentare la corsa di lei facendo cadere, lungo il percorso di gara, le tre mele d’oro. Atalanta, irresistibilmente attratta dai frutti, venne sconfitta e sposò Melanione.


Dunque, nel mito classico, le mele sono spesso legate al tema del matrimonio ma hanno anche una valenza oscura come suggeriscono i finali di queste storie. L’unione fra Paride ed Elena provocherà la sanguinosa guerra di Troia che si concluderà con la fine dell’età degli eroi, quella subito precedente alla nostra. Le Esperidi, disperate per la perdita dei frutti d’oro, si tramuteranno in albero. Melanione e Atalanta, presi dalla passione amorosa, si accoppieranno nel tempio di Zeus e, per questo sacrilegio, verranno tramutati in leoni.
Ma prima di giungere a un’eventuale conclusione sul significato di questo simbolo, sarà meglio fare un viaggio nelle terre del nord Europa, in quella mitologia norrena all’apparenza lontana dal mondo classico e in cui, invece, a una lettura più attenta, si possono trovare molte similitudini con i miti greci. Prima però bisognerà spiegare l’etimologia della parola mela sia nel mondo greco – latino che nel mondo vichingo/germanico.
Mela in greco si diceva mallon/mellon e da questa stessa parola arriva fino a noi. Ma, in antichità, più che indicare il frutto odierno stava a significare il frutto in generale. Tanto è vero che esistevano diverse varietà di frutta che venivano chiamate mele con l’aggiunta di un aggettivo che ne indicava la peculiarità o l’origine. La pesca ad esempio era la mela persica perché veniva appunto dalla Persia. Anche nel mondo germanico funzionava allo stesso modo. Ai tempi dei vichinghi il frutto della mela era sconosciuto e il termine veniva usato per indicare qualsiasi tipo di frutto. Apfel in tedesco così come apple in inglese vengono dalla radice indoeuropea *abel che ha lo stesso significato generico di mallon/mellon a suo volte derivante dalla radice *mel che vuol dire dolce.
Dunque, quando si parla di mele d’oro o di pomi della discordia non bisogna per forza pensare al nostro moderno frutto ma sforzarci di capire che per i popoli antichi la varietà di frutta non era poi così importante.
Nella mitologia norrena troviamo le mele in due miti importanti. Uno riguarda Freyr, il signore del mulino, dio della luce molto simile ad Apollo, che innamorato di Gerdr diede al suo servitore Skirnir nientemeno che undici mele da donare alla ragazza per convincerla a sposarlo. Ancora una volta quindi, le mele sono legate a un matrimonio anche se Gerdr non si lascerà convincere solo da questi frutti ma Skirnir dovrà provarle tutte prima di strapparle un sì. In compenso però l’amore di Freyr per Gerdr si rivelerà fatale per il dio. Skirnir, infatti, in cambio della missione, vorrà la spada di Freyr e quando arriverà il Ragnarok il dio si troverà privo della sua arma migliore e sarà destinato alla sconfitta.



Le mele sono al centro anche di un altro mito. Nella Lokasenna si narra che il dio Loki, a seguito di un litigio, fu costretto a rapire la dea Idun e le sue mele per il gigante Thiazi. Così come Eracle prima di lui, anche Loki compie questo gesto non di sua volontà ma perché costretto. Solo che, in questo caso, oltre ai fatidici frutti verrà rapita anche la dea che li custodisce, Idun. Tale divinità, legata alla vegetazione, alla fecondità della natura e alla fertilità, era sposa di Bragi, il dio della poesia, forse un altro aspetto del dio Odino. I frutti di Idun, chiamati semplicemente apfeli, erano indispensabili per gli Asi perché li mantenevano giovani e pieni di vita ed energia. Quando Thiazi si appropriò di Idun e delle sue mele, gli Asi cominciarono a invecchiare e costrinsero Loki a trovare una soluzione per riportare indietro Idun. Il dio degli inganni si trasformò in un’aquila, volò alla dimora di Thiazi, mentre questo era assente e portò via i frutti e Idun che, per comodità, si trasformò in una noce.


Troviamo qui sia il tema del furto divino che della metamorfosi arborea che facevano parte del mito delle Esperidi. Per inciso, di fanciulle trasformate in alberi è piena la mitologia antica. Basti pensare a Dafne che voleva preservare la propria verginità o a Mirra, distrutta dall’amore infelice per suo padre che addirittura partorirà suo figlio sotto forma di albero. Oggi forse è difficile collegare la figura di una fanciulla a quella di un albero ma diventa molto più semplice comprendere il collegamento se pensiamo che in greco come in latino il nome degli alberi era femminile. E per una buona ragione. Dopotutto, gli alberi producono i frutti come le donne mettono al mondo i figli.


La mela, il frutto in generale, è prima di tutto un chiaro riferimento alla fecondità e alla fertilità, doni tipicamente femminili. Idun è appunto la dea della fertilità così come Afrodite, che riceve il pomo della discordia da Paride, è la dea dell’amore come motore che muove la vita dell’intero cosmo. Nel suo De Rerum Natura, Lucrezio ci spiega bene l’alto compito di questa dea spesso invece legata solo a storie lascive. Anche Gerdr era probabilmente una dea della vegetazione così come lo era Nehalennia, dea germanica della fertilità. 


Essa veniva rappresentata insieme a un cane, accanto alla prua di una nave e con in mano un cesto pieno di frutti e pagnotte. Sono tutti simboli, allo stesso tempo, legati alla vegetazione ma anche alla vita nell’aldilà. Il cane è un animale infero come dimostra la presenza di Cerbero custode dell’Ade. Anche la barca aveva a che fare con i viaggi ultraterreni e i frutti non sono solo un simbolo di abbondanza su questa terra ma anche di prosecuzione della vita nell’aldilà. Innanzitutto, tornando al mondo nordico, l’idromele era la bevanda tipica del Walhalla che veniva anche chiamato “le sale dell’idromele”. Tale bevanda era scaturita, la prima volta, dal cadavere di Kvsar, un mitico vate. Essa garantiva la sopravvivenza anche dopo la morte agli eroi che avevano avuto accesso al Walhalla ed era bevuta anche e soprattutto dagli Asi.


Ma le mele come frutto dell’aldilà sono protagoniste di un altro mito famosissimo, una storia che ha superato ogni barriera di tempo e spazio, una storia molto probabilmente più antica di quanto si creda. Si narra infatti, fra i Celti, del mitico Artù trasportato dalla Fata Morgana in Avalon, dove giace addormentato in attesa che rinasca, quando il mondo avrà ancora bisogno di lui. Avalon significa proprio Isola delle Mele ed è un luogo collocato nell’estremo occidente, come il giardino delle Esperidi e che non è altro che l’isola dei beati, una sorta di luogo d’attesa per le anime degli eroi morti, un luogo privilegiato dell’aldilà. Adesso forse possiamo azzardare che la funzione delle mele non è solo quella di rendere esteticamente più piacevole questo triste luogo ma quello di fornire nutrimento e sopravvivenza alle anime dei trapassati.


Avalon ricorda da vicino l’irlandese Tir na NOg, la terra del giovane eterno, chiamata anche Emain Ablach, ovvero l’isola degli alberi di melo, in gallese Ynis Afallach, ancora una volta l’isola delle mele. In questo luogo mitico vivono i Thuata de Danann o Sidhe, le divinità celtiche dei Gaeli che poi vennero evemerizzati dai monaci che nel medioevo riportarono per iscritto queste leggende secondo un’ottica cristiana. Tra queste leggende compare anche la storia di un furto divino, quello dei tre figli di Tuiren che rubarono i frutti dal giardino di Hisberna.


È come se un cerchio si chiudesse, come se pezzettini di pane continuassero a portarci sempre nella stessa direzione.
In ognuna di queste storie ci sono riferimenti che tornano come segnali luminosi che ci vogliono portare verso una precisa direzione. Il frutto della mela quindi è legato al tema del furto divino, del matrimonio, della fertilità, della sconfitta e della morte. Il frutto della mela è dunque strettamente legato alla vita stessa. Nascita e morte, amore e sconfitta, audacia e fallimento sono tutti aspetti dell’esistenza e la mela contiene in sé tutti questi significati.  Essa è la porta per la felicità terrena, schiude il cuore della donna amata ma è anche causa di dolori e morte. Eppure essa è l’efficace strumento che preserva la vita anche dopo la morte.
In occidente, questa doppia valenza è sopravvissuta anche dopo che le storie dell’Antico Testamento sono penetrate nel mondo antico. Mentre non vi è traccia di mele nell’esegesi biblica ebraica, furono i commentatori latini a individuare nella mela il frutto del peccato originale probabilmente per un gioco di parole che vede malum nel doppio significato di mela e di male. La mela quindi come veicolo di disgrazia e di caduta, di sconfitta primigenia per la razza umana. Eva si fa tentare dal serpente attorcigliato all’albero della conoscenza del bene e del male. Lei e Adamo perderanno la loro innocenza e solo dopo genereranno due figli.



Ritroviamo ancora la mela nella fiaba di Biancaneve, così come abbiamo accennato all’inizio. La fanciulla mordendo la mela si addormenta in un sonno da cui solo il bacio del principe potrà svegliarla. La mela rossa simboleggia l’inizio della pubertà, il momento in cui la bambina diventa donna anche se la consacrazione di questo passaggio può avvenire solo nel matrimonio.


 Alla luce di ciò comprendiamo meglio il collegamento della mela con tutta la serie di matrimoni, divini e umani, che abbiamo incontrato nel nostro percorso. La mela, come emblematico frutto rosso, è legato alla femminilità e questo legame è ancestrale. Le nostre antenate del paleolitico che si dedicavano alla raccolta conoscevano bene le proprietà di questo cibo. Ancora oggi il colore delle donne è il rosso o il rosa come quello dei frutti edibili proprio perché delle donne era il regno vegetale. E così tanto potere avevano i frutti come portatori di nutrimento e vita, come sinonimo di fertilità della terra e fecondità della donna che gli venne attribuita la capacità di preservare la vita anche dopo la morte.   

lunedì 14 novembre 2016

Il Labirinto e la sua Signora: un viaggio sopra e sotto la terra

Westworld è una serie fantascientifica molto interessante anche perché si presta a varie letture e può essere fruita su diversi livelli. Chi cerca solo l’avventura e l’azione forse resterà deluso ma chi si lascerà guidare dagli indizi, ben distribuiti, come le molliche di pane di Pollicino, farà un viaggio straordinario.

Il viaggio in Westworld, è simboleggiato da un mitico Labirinto che, presto o tardi, tutti i personaggi si ritrovano a cercare, costretti o per scelta volontaria. Nello specifico, questo labirinto assomiglia moltissimo a quello della tribù nativa degli O’odham con l’unica differenza che l’omino stilizzato, invece di stare all’esterno, sta all’interno del Labirinto. L’androide Teddy spiega chiaramente che il Labirinto è un mito dei nativi e così, in effetti, è anche nella realtà. Per gli O’odham, si tratta della sede del dio creatore che ha lasciato andare l’uomo fuori dalla sua casa. Ma il viaggio non è a senso unico. Il viaggio terminerà solo quando l’uomo tornerà al suo interno.


Dunque il viaggio dentro e fuori dal Labirinto è un viaggio circolare, in qualche modo, un itinerario prestabilito le cui tappe corrispondono ai meandri del Labirinto stesso.
Questo viaggio di vita e morte ci riporta indietro nel tempo e ci consegna l’archetipo del Labirinto dall’altra parte del globo, a Creta. Qui troviamo un mito fondante dell’Occidente eppure, ne siamo sicuri, riusciremo a trovare riscontri con il mito del “selvaggio” ovest di oltre oceano.
Il nome stesso di Labirinto è il primo mistero, almeno all’apparenza. La prima spiegazione è che abbia a che fare con il termine Labrys, l’ascia bipenne che a Creta era raffigurata un po’ ovunque e che doveva rappresentare uno strumento importante nei riti religiosi dell’isola.
Allo stesso tempo, la radice della parola richiama Labra, Lauria ovvero caverna, antro. Non per niente, il Labirinto è una costruzione sotterranea per i Cretesi come per gli O’odham. Gli archeologi, spinti dagli storici ateniesi, identificarono il Labirinto  con la struttura dei grandi palazzi, in particolar modo quello di Cnosso che spicca per la sua complessità. Il palazzo sicuramente doveva presentare più finalità, non solo luogo del potere politico ma anche religioso. Non dimentichiamoci che nel mondo minoico, ma possiamo dire antico in generale, il re incarnava entrambi gli aspetti.


Gli storici ateniesi, o meglio dire gli scrittori di miti, ci hanno lasciato un nome di re, in particolare, Minosse, che è diventato il re per eccellenza dell’isola di Creta. Proprio il suo nome svela la sua funzione sacerdotale dato che significa Beato. Più che un nome proprio doveva trattarsi di un epiteto riservato alla massima carica religiosa e civile e veniva attribuito a tutti coloro che ricoprivano questo ruolo. Il sommo sacerdote utilizzava l’ascia bipenne per colpire a morte le vittime sacrificali, uno strumento chiave per comprendere il significato del Labirinto.
L’ascia bipenne si trova presente nelle culture mediterranee da Creta alla Spagna passando per la Sardegna nuragica ma vive anche nell’Irlanda celtica, nel mondo vichingo e in Africa. Verrà utilizzata come strumento rituale per tutta l’era pagana fino alla fine dell’Impero Romano. In un primo tempo, essa veniva collegata al culto della Dea Madre ed era un simbolo astrale. La doppia ascia rappresentava le corna della dea, identificata con una vacca, una dea lunare le cui falci, calante e crescente, corrispondono alle due asce della bipenne. Tale dea si accompagnava a una divinità maschile, identificato in un toro e simbolo di luce, di sole.


Ed ecco che, nel nostro percorso, compare un altro personaggio tipico della mitologia cretese, il toro appunto. Colui che vive al centro del Labirinto, sotto forma di Minotauro. La sua storia, così come la conosciamo, è frutto di rielaborazioni posteriori da parte degli Ateniesi che per secoli furono rivali e succubi dei Cretesi e della loro potenza marittima. Così vediamo una principessa cretese sottomettersi a un principe ateniese, tradire la sua patria, la sua famiglia e venire poi abbandonata senza un’apparente spiegazione a missione conclusa. Ma da questa narrazione classica all’era del Labirinto sono passati secoli, popoli e culture si sono succedute nel Mediterraneo, le lingue sono cambiate e così la mente degli uomini. E poi è noto che la storia la scrivono i vincitori…
Torniamo ai nomi. Arianna, la purissima, richiama anch’essa una qualità sacra, molto simile a quella del nome Minosse. Arianna è la signora del Labirinto per eccellenza, colei che guida e salva, colei che possiede il filo per entrare e per uscire. Nell’iconografia, era rappresentata insieme ai serpenti e al toro e indossava sempre una corona.


I serpenti sono animali ctoni, legati al tema della rinascita, della circolarità del tempo e identificati dal loro andamento a spirale, sinuoso, mai rettilineo.
Del toro abbiamo già detto, simbolo astrale, era la controparte maschile della dea. Il simbolo delle corna che ancora adesso sopravvive come forma di scongiuro, richiamava soprattutto l’antichissima immagine del percorso della luna nel cielo. E ricorda Hathor, la dea vacca egizia, dea dalla nascita e della morte, che ogni giorno fagocita il sole per poi restituirlo dodici ore dopo.


Arianna fa parte di questa schiera anche se i Greci l’hanno declassata dal suo ruolo di dea a quello di ingenua principessa. Arianna è, come ricorda un’iscrizione trovata proprio a Creta, la signora che presiede al percorso del Labirinto, un viaggio verso il centro e poi di nuovo verso l’uscita. Un viaggio per cui serve la sua guida femminile. Un viaggio che è, allo stesso tempo, nel cielo e sotto terra.
Il Labirinto cretese infatti è situato sotto terra ma ci sono chiari indizi che il suo percorso avesse a che fare con la volta celeste.
Il vero nome del Minotauro, innanzitutto, Asterio, lo stellato. I nomi non sono mai dati a caso nella mitologia anche se a volte è difficile ricostruirne il significato. In questo caso però non ci sono misteri. Dunque Asterio, colui che brilla come una stella, vive al centro del Labirinto, nel ventre della signora e, in teoria, non può uscirne. È l’omino stilizzato degli O’odham, il dio del Labirinto, è il sole che viene rinchiuso nelle profondità delle viscere della terra e poi ne esce, liberato e forte, come Teseo, grazie alla guida di Arianna. Gli Ateniesi ne hanno fatto un mostro. In effetti, tutti i personaggi del mito cretese hanno un’ombra di mostruosità. L’amplesso bestiale di Pasifae con un toro, la condanna di Minosse a divorare con dei serpenti fuoriusciti dal suo corpo le sue amanti, persino il desiderio sfrenato di Fedra per il suo figliastro e la sconsideratezza di Arianna nel fidarsi di uno sconosciuto venuto dal mare. Ma, appunto, gli Ateniesi, dopo secoli di tributi e umiliazioni, secoli in cui dovettero piegarsi al potere di Creta, scrissero queste storie e si vendicarono così dei loro antichi nemici.


I serpenti, il toro, la corona dicevamo.
Secondo il mito, quando Dioniso trova Arianna piangente sulla spiaggia di Nasso, decide di sposarla e le dona un diadema che poi viene trasformato nella costellazione della Corona Boreale. Essa, secondo l’interpretazione di Graves, presiede all’eroe addormentato nello Spiral Castle o nell’Isola di Vetro come il re Artù dei Celti. Ed ecco che ritorna il mito solare. Come? Quando il sole sorge nella costellazione del Cancro si ritrova prigioniero di uno spazio di cielo in cui le stelle sono disposte come una fitta spirale, come un Labirinto. Il sole ne rimane prigioniero ed è come morto. Riposa allora in una sede funebre identificata con la mitica Avalon finché la signora del Labirinto non lo risveglierà dal suo sonno e lo farà uscire di prigione. Così i Celti, non toccati dal revisionismo storico degli Ateniesi, ci restituiscono il significato astrale del Labirinto.


Ma il nostro percorso non si ferma qui.
Nel mito ateniese c’è anche una danza, detta delle gru o del Labirinto. Una danza a spirale che ricorda appunto i meandri del Labirinto e ancora oggi sopravvive nel sirtaki. Arianna non è solo la signora del cielo che libera il sole dalla sua prigione, è anche la signora degli Inferi, colei che presiede ai cicli di nascita e morte individuali e universali. Non è un caso che nella tradizione tantrica il Labirinto è il simbolo del parto, del tortuoso e doloroso percorso del nascituro nel ventre materno.


Inoltre questo doppio aspetto, astrale e infero, ci ricorda le sorelle Inanna e Ereshkigal del mito babilonese. Sorelle ma anche aspetti diversi di una medesima natura. Inanna, dea della luna, era pura e splendente e, al tempo stesso, dea dell’amore sensuale, necessario a inaugurare il ciclo della vita. Ereshkigal, al contrario, era oscura e misteriosa, dea del seme che scompare nel terreno e ricresce trasformato, dea infera che custodisce il mondo ultraterreno. Questa coppia divina è legata da un vincolo di parentela difficile da districare con Nannar o Sin, il dio del Sole. Ancora una volta luna e sole insieme e, molto probabilmente, almeno al principio, era Nannar a derivare da Inanna. Questo movimento in su e in giù dei due astri nel cielo viene ancora oggi imitato dal movimento delle braccia della madre nel cullare il proprio figlio, nel fargli, appunto, la ninna nanna.


La sorella oscura è sposa del dio toro, guarda caso, finché esso non viene ucciso da Gilgamesh. In seguito dividerà il consorte Dumuzi, dio della vegetazione con Inanna. Un chiaro simbolo del ciclo della natura. Ancora una volta il linguaggio mitico non si fa intrappolare. Nell'antichità non c’era una religione agricola o una astrale, i due aspetti non sono antitetici ma si completano a vicenda.
Ma non abbiamo ancora investigato su un altro elemento sempre presente nel mito del Labirinto: il filo.
Si tratta dello strumento con cui Arianna aiuta Teseo a sfuggire ai meandri del Labirinto. Il filo ci rimanda ai cosiddetti miti tessili. Senza andare lontano, già nella mitologia greca ne possiamo trovare tre: le Moire, Aracne, la donna ragno, e Penelope.
Le Moire erano tre sorelle di età diversa, figlie di Zeus e di Temi, la giustizia, che letteralmente filavano il destino degli uomini dalla nascita alla morte. Le corrispondenti latine erano le Parche che presiedevano alla nascita che dai Romani venivano anche chiamate Fate, cioè coloro che conoscono e dispensano il Fato, il destino ineluttabile.  Nella mitologia norrena esse sono invece le Norne che non solo tessevano il destino degli uomini ma lo sussurravano per mezzo delle rune. Norne infatti significa coloro che sussurrano ed erano rappresentate con delle rune incise sulle unghie. Il destino, infatti, non solo si fila ma si pronuncia a voce come faceva Naith, la dea egizia del telaio, la dea tessitrice delle bende con cui si avvolgevano le mummie ma anche la dea artefice delle armature dei guerrieri. In lei è chiaro quindi il legame fra l’innocente telaio, simbolo delle arti femminili, e la guerra e la morte. Naith distribuisce non tanto la vita, con la sua sapienza, ma accompagna l’uomo verso la conclusione del suo viaggio che abbia lo splendore delle armi di guerra o il grigiore delle bende con cui si avvolgevano i defunti.


Lo stesso legame, meno manifesto, si ritrova nella dea Atena che nacque adulta e armata dalla testa di Zeus (Efesto la liberò con un colpo di bipenne, guarda caso). Atena era anche la dea delle arti femminili e il mito ci spiega che, grazie alla sua abilità al telaio, annientò la sua rivale, Aracne, che si vantava di essere più brava di lei. Più probabilmente Aracne è una versione più antica, ferina, della dea, poi edulcorata dai mitologi greci. Dee ragno si trovano in ogni parte del mondo, non solo in quello mediterraneo. Ancora una volta torniamo nel selvaggio ovest dove la dea ragno degli Hopi faceva da tramite fra gli dei e gli uomini, sussurrando loro il destino che gli era stato assegnato.
Per ultima Penelope. Regina di una minuscola isola in attesa di un marito perennemente assente? O dea consorte di un dio solare che attraversa il cielo infero per poi tornare nel giorno del solstizio infilando con i suoi raggi le dodici costellazioni del cielo superiore? A questo punto, conoscendo meglio il linguaggio del mito e avendo incontrato altre dee che aiutano con il loro filo i partner a ritornare indietro dai tortuosi meandri del Labirinto, la risposta possiamo anche darcela da soli. 









lunedì 27 giugno 2016

The goddess of the mountains

A few days ago I have been in Chiuduno, near Bergamo. Every day, there is a festival, The Spirit of the Planet, that is dedicated to those cultures that risk to disappear because of the globalization. That evening, American Natives appealed in order that their sacred mountain, in Arizona, wouldn’t be used as a copper mining. They explained that this place, Big Seated Mountain, known also as Graham Mountain, is a sacred place since thounsands of years where their women go to bear and where they celebrate thanksgiving rituals to Mother Earth.

Then I listened a bell ringing…
Once again a sacred mountain, an archetype that recurs in many cultures in the world. I spoke about it, in my article concerning Delphi, but I desidered to share with you some ideas about the importance of two mountains that had the same name in the ancient Mediterranean: Mount Ida.  Now, the most famous Mount Ida is where the judgment of Paris happened. The prince of Troy, not aware about his origins, young and innnocent shepherd, has been chosen like judge in order to award the fateful apple to the most beautiful goddess. This Mount Ida was situated in Troad, western region of Anatolia.
On the contrary, the second Mount Ida is situated in Crete where baby Zeus has been hidden by his mother Rhea because she was tired for seeing her husband Uranus eating up her children. Zeus was cared by Nymphas and by Amalthea, a goddess or a goat.


The point is that the precence of two mountains with the same name and so close to each other doesn’t seem a coincidence.This name results from Indo – European root *Da, a syllabe that recurs in the name of Demetra too. We know this goddes with her Attic name, Athenian name, but in the rest of Greece she was known as Da – Ma – Ta and his partner was Poseidon, or else Da’s husband. In fact, those two gods, under the guise of a horse and a mare, copulated and generated Kore, the Maiden, also called Persephone or simply Despoina, the Mistress.


It’s not the moment for knowing more about this divine family becuase they deserve an other post, instead I want to return to those two mountains.
Leaving the myth, in historical times Mount Ida in Troad was the principal site of the goddess Cybeles while the Mount Ida in Crete was the site of the goddess Rhea, a personification fo Mother Earth.
It’s not a new thing that people who lived in Crete, before of the arrival of the Mycenean hordes, adored God Mother, represented with serpent in her hands and celebrated through ritual plays of the bull, the taurocatapsy. So, Cybele and Rhea are two faces of the same goddess Da, id est Mother Earth. And the worship linked to the mountain suggests that these places was considered basic in the ancient religions to these goddesses.



As the Native American brothers, as in the Pre – Greek Mediterranean or in the christianised world, a mountain holds a sacred value, it’s the place where the earth join the sky and its shape remembers a womb. We could find a lot of sacred mountains everywhere in the earth from Australia to Tibet, from South America to Europe, today again. Where? The Mount Athos in Greece, for example, forbidden place to women (also famale animals!) because only Virgin Mary can stay there.

The Mount Carmel in Israel, Tyndaris in Sicily, once site of the worship of Ceres and now dedicated to a Black Madonna… How many marian sanctuaries rise on a mountain? Also the chatted site of Medjugorje…



domenica 5 giugno 2016

La dea delle montagne

Ieri sera sono stata a Chiuduno, in provincia di Bergamo. Ogni anno si svolge un festival, Lo spirito del Pianeta, dedicato a tutte quelle culture che rischiano di scomparire a causa della globalizzazione. La serata di ieri era dedicata ai nativi americani che hanno fatto un appello affinché non venga toccata la loro montagna sacra, in Arizona, che rischia di essere trasformata in una miniera di rame a cielo aperto. Ci hanno spiegato che questo luogo, la Grande Montagna Seduta, il Graham Mountain per gli statunitensi, è un luogo sacro da migliaia di anni dove le donne vanno a partorire e vengono celebrati riti di propiziazione e ringraziamento alla madre terra.

E qui è scattato un campanello....
Ancora una volta una montagna sacra, un archetipo presente in molte culture del mondo. Ne avevo fatto cenno, riguardo a Delfi, nel post precedente, ma volevo condividere con voi alcune riflessioni sull'importanza di due montagne dell'antichità mediterranea accomunate dal fatto di presentare lo stesso nome: il monte Ida.
Ora, il monte Ida più famoso è quello in cui è avvenuto il giudizio di Paride. Il principe di Troia, ancora ignaro delle sue origini, giovane pastorello innocente viene scelto come giudice per assegnare la fatidica mela d'oro alla dea più bella. Questo monta Ida si trova in Frigia, nella penisola anatolica.
Il secondo monte Ida invece è situato a Creta ed è tra i suoi anfratti che venne tenuto nascosto Zeus neonato da sua madre Rea, stanca di veder divorati tutti i suoi figli dal marito Urano. Zeus venne accudito dalle ninfe e nutrito da Amaltea, da alcuni identificata con una divinità, da altri con una capra.
Il punto è che non sembra affatto una coincidenza la presenza di due monti, a poca distanza l'uno dall'altro, con lo stesso nome. Questo dipende dal fatto che la radice di questo nome è *Da, una sillaba che si ritrova, ad esempio, nel nome di Demetra. Noi conosciamo questa dea con il suo nome attico, ateniese insomma, ma nel resto della Grecia era conosciuta come Damater, la madre Da appunto. Anche nelle tavolette micenee era chiamata Da-Ma-Ta e il suo paredro, ovvero il suo compagno, era Poseidone, cioè il marito di Da. In effetti, i due dei, sotto le sembianze rispettivamente di giumenta e cavallo, si accoppiarono e da questa unione nacque la Kore, la fanciulla, chiamata anche Persefone o semplicemente Despoina, la signora.
Ora, non voglio entrare nei particolari di questa famiglia divina, perché meritano un post a parte e invece voglio tornare a queste due montagne sacre.
Tralasciando il mito, in tempi storici il monte Ida in Frigia fu sede principale del culto della dea Cibele mentre, come è anche chiaro dal mito di Zeus, il monte Ida a Creta era sede del culto di Rea, una delle personificazioni della madre terra.
Non è una novità che le genti che abitavano Creta prima dell'arrivo dei Micenei adorassero la Dea Madre, rappresentata con in mano dei serpenti e celebrata attraverso i giochi rituali del toro, la taurocatapsia.
Dunque, Cibele e Rea sono due volti della stessa Da, cioè la madre terra e il culto legato alla montagna ancora una volta ci indica come questi luoghi più di altri fossero considerati centrali nelle antiche religioni legate a questa divinità.
Come i fratelli nativi americani, così anche nel Mediterraneo pre- greco o nel mondo cristianizzato delle origini la montagna conserva un valore sacro, è il luogo in cui la terra si unisce al cielo e la sua forma ricorda il grembo materno. Montagne sacre se ne ritrovano in ogni luogo della terra dall'Australia al Tibet, dal sud America all'Europa, ancora oggi. Dove? Il monte Athos in Grecia ad esempio, luogo interdetto alle donne perché l'unica che vi può risiedere è la vergine Maria.
Il monte Carmelo in Israele, Tindari, una volta sede del culto di Cerere e poi di un santuario dedicato a una Madonna nera... Quanti santuari mariani sorgono su un monte? Anche il chiacchierato sito di Medjugorje...