In questo articolo era mia
intenzione parlare dell’arcobaleno nei diversi miti ma, durante il percorso, la
ricerca ha preso strade impreviste e mi sono imbattuta nelle antiche storie
sulle vie che dal cielo portavano, in tempi remoti, gli dei a camminare sulla
terra.
Il concetto non è affatto nuovo,
del resto. Secondo la mitologia greca, ci fu un tempo, l’età dell’oro, in cui
uomini e dei vivevano a stretto contatto. Questo legame, questa familiarità,
con il passare delle ere venne meno a causa degli errori degli uomini, fino ad
arrivare alla situazione attuale.
Il ricordo di questa condizione
primigenia di beatitudine persiste in tutti gli antichi miti e, in alcuni casi,
la strada per arrivare al cielo è ancora presente anche se destinata a pochi o
soltanto ai defunti.
È il caso del ponte Cinvat, la
via presente nella mitologia iranica, che permette alle anime di giungere al
Monte di Salvezza.
Il ponte corre sopra l’abisso infernale ed è largo fino a
nove lance quando sopra di esso vi passano i giusti ma si restringe al
passaggio dei malvagi fino a farli cadere sotto. Una montagna, il Monte Meru, è
anche la sede di Indra, il dio indù padrone dell’arco. Il Monte Meru, dimora
del dio, è anche identificato come uno dei paradisi, non il Nirvana, ma un
luogo di delizie e piaceri.
Attraverso una corda, detta dmu, tornavano invece i
primi re del Tibet al cielo sottoforma di arcobaleni fino a quando la corda non
venne spezzata da Grigum, non ne conosciamo il motivo, il primo dei re a essere
seppellito sulla terra.
Benché la via verso il cielo sia
presentata sotto l’aspetto di una corda, ecco che nel mito tibetano compare
anche l’immagine dell’arcobaleno così come l’arco si trova tra gli attributi di
Indra, il dio patrono del Monte Meru, il centro del mondo. Potrà sembrare
strano al lettore ma nel nostro viaggio questi tre elementi, la via, il monte e
l’arco(baleno) si troveranno molto spesso intrecciati insieme e, non sempre,
saranno collegati al tema della morte.
Ad esempio, gli dei giapponesi
Izanagi e Izanami scenderanno sulla terra attraverso il ponte,
Ame-no-hashi-date, per dare inizio alla creazione del mondo ancora sommerso dal
brodo primordiale.
L’arcobaleno, invece, è presente nella mitologia cinese. Nuwa
e Fuxi, coppia divina di fratello e sorella come Izanagi e Izagami, vengono
spesso rappresentati come esseri semi-umani. Dalla vita in su sono un uomo e
una donna ma dalla cintola in giù i loro corpi dragoneschi sono intrecciati
insieme e ricordano molto da vicino i serpenti che circondano gli oceani della
mitologia nordica. Per qualche motivo, il vecchio mondo venne distrutto e Nuwa
mise un tappo nella crepa formato da una pietra vitrea di sette colori,
l’arcobaleno appunto.
Nell’antico Egitto, Iside
indossava un abito composto da sette stole di sette colori diversi. Il ricordo
di questa caratteristica della dea sopravvisse nella danza dei sette veli. In
questo caso il numero sette, come numero magico, indica i molteplici volti
della dea, centrale per i culti egizi. Ma, se prendiamo in considerazione il
fatto che Iside e Osiride erano anche divinità astrali è probabile che i sette
veli rappresentino i pianeti del sistema solare.
Un altro nome di Iside era
Ishtar, letteralmente la dea del cerchio della vita ovvero dello Zodiaco.
Ishtar indossava una collana con sette pietre identificata con l’arcobaleno.
Questo ponte poteva diventare una via d’accesso o una barriera a seconda delle
circostanze. Il dio del mare, irato con l’umanità, scatenò un diluvio e la dea
Ishtar pose l’arcobaleno di fronte all’altare del dio in modo che non potesse
più ricevere i sacrifici degli uomini ma i suoi devoti potevano raggiungere la
selvezza eterna per quella stessa strada.
L’arcobaleno di Ishtar ci ricorda
un altro arcobaleno spuntato dopo un altro diluvio, quello che Dio diede a Noè
come prova del suo patto, della sua promessa di non scatenare più la sua ira
sugli uomini. In effetti, il termine ebraico nel testo fa riferimento a un vero
e proprio arco, cioè un’arma, sulle nubi interpretato come il fenomeno celeste
dell’arcobaleno. De Santillana invece suggerisce che si tratti appunto di un
arco e il testo faccia riferimento a un ben preciso segno celeste che potrebbe
essere identificato con l’arco di Orione e che comunque abbiamo già visto
ricorrere nella mitologia indù (Indra signore dell’arco e in Ishtar che pose un
arco dopo il diluvio).
In ogni caso, l’arco biblico che
sia a colori o che rappresenti una costellazione celeste, è simbolo del legame
tra Dio e gli uomini e, in questo contesto, rientra perfettamente tra le
immagini che abbiamo fin qui catalogato.
Nella Bibbia però è presente
un’altra via, un altro passaggio verso il cielo e la salvezza, anche se si
manifesta solo in sogno e solo una volta: la scala di Giacobbe. Con questa
visione, l’antico patriarca ha assistito al continuo andirivieni degli angeli
dal cielo alla terra e viceversa ma questa strada è percorribile anche dagli
uomini giusti. Nella dottrina cabalistica la scala di Giacobbe è vista come un albero
i cui rami si identificano con gli stadi della perfezione dell’anima che tende
alla salvezza.
Il tema della scala, come via al
cielo, ricorre anche nel Corano. Maometto, cavalcando il favoloso essere Buraq,
sorvolò prima il baratro infernale, osservando le pene riservate ai dannati, e
poi salì all’alto dei cieli fino alla visione di Dio in persona. Il viaggio
viene compiuto dal Tempio Santo al Tempio Ultimo identificati rispettivamente
con la Ka’Ba e il tempio di Gerusalemme.
Per gli antichi greci non esisteva
un passaggio del genere. Il mondo degli dei e quello degli uomini sono del
tutto separati, in tempi storici, ma in passato non sono mancate le eccezioni. Sappiamo
che, nell’età degli eroi, questi esseri semidivini sono nati proprio dall’accoppiamento
fra dei o dee e uomini o donne. Dunque, le divinità scendevano, un tempo, sulla
terra per amare i mortali. Tralasciamo il fatto che molto spesso questi semidei
non sono altro che ciò che rimane di antichi culti a divinità declassate e
soffermiamoci su questo aspetto di famigliarità fra uomini e dei. Una vicinanza
che era ancora più stretta in tempi più remoti. Nell’età dell’oro, infatti,
uomini e dei vivevano a stretto contatto ma furono la follia e l’empietà dei mortali
ad allontanare progressivamente i numi dalla loro vita.
In realtà, gli dei mantengono
aperti vari canali di comunicazione con l’uomo. I sogni, le visioni, la
divinazione, i segni della natura possono essere interpretati come messaggi
divini. E ci sono alcune divinità, in particolare, a essere preposte al ruolo
di messaggeri. Sono il dio Ermes/ Mercurio e la dea Iris o Iride.
Ed è proprio lei che rientra
perfettamente in questa ricerca. La dea Iris infatti era identificata con l’arcobaleno
anche se il suo nome probabilmente in origine significava forza. E, in effetti,
Iris compare come messaggera in situazioni funeste, è portatrice di
avvertimenti di morte, guerra, follia, violenza. Non è un caso se fu proprio
lei ad avvertire Eracle della sua imminente follia che l’avrebbe portato a
massacrare i suoi stessi figli. E non è ancora un caso se la ritroviamo solo
nell’Iliade, il poema omerico della guerra, mentre è del tutto assente dall’Odissea.
Per comprendere bene questa
figura poco nota bisogna ricostruirne l’albero genealogico. Iris è figlia di
Taumante, divinità marina minore, figlio di Ponto e Gea. In effetti, se non
fosse per i genitori, il nome Taumante potrebbe benissimo riferirsi al cielo. Infatti
significa meraviglia, stupore, spesso interpretati in senso negativo, ma anche
splendido. La madre di Iris, Elettra, ha un nome molto simile a quello del
padre. Elettra infatti vuol dire brillante. Eppure, ancora una volta, questa
dea sembra essere legata alla sfera acquatica dato che risulta essere figlia di
Oceano.
Ma Oceano, divinità primordiale,
è un concetto molto difficile da definire per noi uomini imbevuti di cultura
scientifica. Oceano significa colui che circonda o colui che scorre veloce e si
rifà all’idea che l’Oceano circondava la terra emersa. Ma, diversamente da
Ponto, il mare vero e proprio, Oceano rappresentava le acque celesti e
sotterranee, nel senso delle acque dell’emisfero australe. Oceano, più che una
divinità marina, è una divinità astrale.
Tanto è vero che Elettra, la
brillante, genera Iris, la messaggera alata e le terribili Arpie, Ocipete,
colei che vola veloce, e Aello, il vento di tempesta, due divinità anche loro
dotate di ali e più legate all’aria, al cielo che al mare. Le Arpie sembrano
apparentemente molto diverse dalla loro aggraziata sorella Iris. Sono creature
mostruose, metà donna e metà uccello, e rapiscono le anime e i bambini. È chiaro
il loro rapporto con l’Ade ma abbiamo anche detto che, nonostante il bell’aspetto,
anche Iris è collegata alla morte, alla guerra, alla violenza. E, se non
bastasse, la dea iridata è l’unica che può attingere, in ogni momento dell’anno,
alle acque mortifere dello Stige.
Ora, nel mondo del vicino
oriente, la dea dell’arco era Ishtar, colei che muove l’apsu, ovvero le acque
primordiali corrispondenti all’Oceano dei Greci. L’arco di Ishtar, secondo i
testi babilonesi, può essere identificato con la costellazione di Argo e del
cane Maggiore che formavano appunto la costellazione dell’Arco. Nello zodiaco
egizio di Dendera era la dea Satis a scoccare l’arco verso la stella Sirio. L’arco
Keshet che abbiamo trovato, al principio del nostro percorso nella Bibbia e poi
identificato con l’arcobaleno.
Di cosa si sta parlando, in
effetti? Dell’inizio di una nuova età del mondo. Il diluvio ha messo fine alla
vecchia era e l’arco è sorto nella nuova come ponte di comunicazione fra il
divino e l’umano, come segno che il legame non verrà interrotto ancora per
molto tempo.
È un’altra tradizione quella che
ci parla invece del crollo di questo arco, o meglio di questo ponte. Uno dei miti
più noti della cultura norrena è proprio quella del ponte Bifrost.
Il nome, tramandato da Snorri,
significa la via tremula ma il ponte, in verità, si chiamava Asbru, semplicemente
il ponte degli Aesir, gli dei. Era anche detto Bilrost, la via dai molti colori e, ogni giorno, gli Aesir lo attraversavano per scendere da Asgard a
Yggdrasill, presso la fonte di Urthanbrunnr dove tengono assemblea. Solamente a
Thor non è permesso attraversarlo perché lo brucerebbe con il suo carro
infuocato e il dio del tuono è costretto a guadare ben tre fiumi per giungere
al luogo dell’assemblea.
All’inizio del ponte fa la
guardia Heimdallr, la sentinella degli dei, che veglia notte e giorno, in
attesa del Ragnarok. Egli vive nella fortezza chiamata Himinbjorg, la montagna
del cielo. Heimdallr è detto anche il misuratore, un modo simbolico per dire
che a lui spetta il compito di descrivere e ordinare le rotte celesti.
Ecco che
risulta chiaro che stiamo ancora una volta parlando dei lunghi cicli astrali. Quanto
l’Arco cadrà, questo mondo scomparirà e ne arriverà uno del tutto nuovo, con
altri dei e altri cieli. Il Bifrost infatti, opera degli Aesir, è fatto per
essere resistente ma è pur sempre destinato a crollare quando su di esso tenteranno
di passare i figli di Muspell, i giganti che daranno il via al Ragnarok. La loro
natura di fuoco, simile a quella di Thor, distruggerà il Bifrost e inizierà la
caduta di questo mondo e degli stessi Aesir.
La via che porta al cielo dunque
è una strada difficile da percorrere non solo per gli uomini ma per gli stessi
dei. In alcune culture essa è ormai definitivamente compromessa, altrove
permane come strada privilegiata per pochi eletti. Laddove però viene
identificata con la figura dell’arco risulta più chiaro il suo legame con i
cicli astrali della precessione degli equinozi. A ogni nuovo cielo corrisponde
un nuovo mondo e un nuovo astro di riferimento. L’arco, come un ponte, collega
il nostro attuale mondo al cielo dai tempi del diluvio. Chissà quale sarà il
prossimo segno celeste a cui gli uomini potranno aggrapparsi come speranza di
un legame con il divino.
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