lunedì 30 maggio 2016

Antichi culti fra cielo e terra

Chi ha qualche dimestichezza con la storia delle religioni e l’antropologia non può ignorare il prezioso contributo di James Fraser che nel suo “Il ramo d’oro”, per la prima volta, studia i miti e i costumi di popoli antichi e moderni utilizzando la tecnica comparativa. Questo studio gettò le basi per le future ricerche antropologiche e religiose anche se alcune scoperte oggi sono state superate. L’assunto principale dell’opera di Fraser era che, alla base degli antichi culti e delle usanze di tutti i popoli della terra, vi fosse una radice “contadina”, legata appunto ai cicli della vegetazione e al variare delle stagioni.
Quasi mezzo secolo dopo, Giorgio de Santillana, in collaborazione con Herta Von Dechend, scrisse il Mulino di Amleto, un libro culto per tutti gli appassionati di archeoastronomia. Come lo stesso de Santillana afferma nelle prime pagine del suo libro, James Fraser ha fatto il suo tempo: i miti, le tradizioni che gli Antichi (sì, proprio con la maiuscola, come fossero un unico popolo) ci hanno tramandato sono collegati all’osservazione delle stelle e allo scorrere del tempo.
Questo dualismo fra cielo e terra piace molto agli studiosi che possono così schierarsi da una parte o dall’altra. Ma ritengo che le cose non siano così semplici e che gli Antichi (continuiamo a chiamarli così) non fossero così selettivi nell’osservare il mondo che li circondava.
L’idea mi è venuta durante il mio ultimo viaggio in Grecia. A Delfi, alle pendici del monte Parnaso, ho appreso dell’antico mito della Ierogamia, un matrimonio mistico fra cielo e terra avvenuto in tempi primordiali per dare origine alla vita stessa. In quello stesso luogo, durante il diluvio universale, trovarono rifugio Deucalione e Pirra, l’unica coppia di umani scampati allo eccidio divino, che lì ricrearono la stirpe degli uomini.
Dunque, cielo e terra come moglie e marito in grado di generare la vita. Moglie dai molteplici aspetti, dalle molteplici virtù, marito altrettanto versatile, un po' sole e un po' pioggia. Tra i miti e i racconti dei secoli passati non è stato difficile rintracciare i legami e gli indizi che, da Delfi, mi hanno portata anche molto lontano.
Ma proprio da Delfi vorrei cominciare questa prima tappa del viaggio. Qui, in tempi storici era venerato Apollo, il dio della luce, il guaritore, il veggente. La sua sacerdotessa, la Pizia, nascosta negli anfratti al di sotto del grande tempio, esprimeva con parole confuse le visioni che il dio le infondeva. Oggi si ritiene che la sacerdotessa respirasse dei vapori tossici che le procuravano “visioni” ed “estasi”; le tracce di questi gas sono state ritrovate nelle rocce sottostanti in tempio.
Ma è sul termine Pizia che vorrei soffermarmi. Esso deriva dal Python, un mostro ctonio, con un chiaro legame con la dea terra che qui aveva celebrato il suo matrimonio, ucciso poi da Apollo. Il pitone, questo grosso serpente, richiama l’iconografia della dea madre di Creta rappresentata nell’atto di brandire un serpente per ogni mano. Il serpente è un chiaro riferimento ai culti legati alla terra e lo troviamo anche in altre culture mediterranee, a cominciare da quel serpente di origine fenicia, o meglio filistea, che irretì Eva nel giardino dell’Eden.
Ma, scavando nel mito, attingendo direttamente ad Omero, scopriamo che Apollo, insediatosi nel suo nuovo santuario, fu chiamato Delfinio. Come ci ricorda Diodoro Siculo, esperto di antichità, Delfina era il nome di una “draconessa” padrona di quei luoghi prima dell’arrivo del dio Apollo. Dunque, nella sua forma più arcaica, il Pitone altri non era che una divinità ctonia femminile.
Robert Graves affermò che la battaglia fra Apollo e il Pitone e la sconfitta di quest’ultimo non è altro che il ricordo ancestrale dell’arrivo del popolo nordico dei Dori, apportatori di una nuova religione, legata al culto astronomico, contro la religione mediterranea legata al culto solare.
La spiegazione sarebbe supportata da documenti archeologici che testimoniano il passaggio da un culto a una divinità femminile a una divinità maschile. Ma se guardiamo all’etimologia del nome Apollo le cose si complicano un po'. E il nostro viaggio prende una direzione imprevista.
Ufficialmente il nome del dio ha un etimo sconosciuto. In verità, se guardiamo non al greco antico, in cui non si trovano corrispondenze, ma alle altre lingue indoeuropee, vediamo la somiglianza con Apple (inglese), Apfel (tedesco), o Aval e Afal (bretone e gaelico) da cui deriva anche Avalon, la mitica isola delle mele di Artù. Dunque, Apollo collegato non solo a un serpente ma anche a una mela…
Apollo, come lo stesso mito ci tramanda, veniva dall’estremo nord, dal popolo degli Iperborei e amava tornare spesso in quelle terre. È questo un indizio per comprendere al meglio la sua origine?
Sulla mela bisognerebbe scrivere un trattato a parte, sulle sue risonanze e il suo peso in racconti e miti lontani nel tempo e nello spazio. Basti ricordare, in questo contesto, le virtù di Apollo guaritore e la salubrità della mela che, come frutto risanatore, è riconosciuto da tutti i popoli (una mela al giorno….).
Il monte Parnaso però custodisce anche un altro mistero, un punto misterioso e magico, legato non alle stelle, non al culto astronomico di Apollo, così come gli studi ufficiali ce lo mostrano, ma ancora una volta alla terra, l’Omphalos, l’ombelico del mondo sotto forma di una pietra, riproduzione romana di una molto più antica. Dunque Delfi era davvero il luogo di nascita del mondo e dei suoi abitanti, il luogo in cui Gea e Urano si unirono misticamente. L’Omphalos altri non è che il simbolo del ventre della Terra, l’ombelico a cui tutti noi siamo legati, il punto sacro da cui la vita è partita e ha preso la sua strada nel mondo.
Culto della dea madre, dunque, ma culto anche del cielo nelle nuove vesti di Apollo, custode e protettore di quei luoghi e dell’Omphalos in particolare. Apollo e il Pitone insieme o meglio la draconessa, maschile e femminile, celeste e terrestre, insieme a preservare il luogo da cui è nata la vita.
Questo Omphalos ha una forma relativamente conica e, nella versione a noi pervenuta, dei disegni a losanghe e fiori che, nell’interpretazione corrente degli archeologi, raffigurava la rete di lana che doveva proteggerlo in passato. Nel mito, Zeus, dio del cielo, mandò due aquile che dai confini del mondo dovevano incontrarsi nel suo centro e questo centro fu Delfi.
Per i Greci, e per le genti prima di loro che vivevano in quelle plaghe, Delfi era quindi il luogo che si identificava con l’Axis Mundi, l’asse del mondo dove l’albero primigenio sosteneva i mondi, il cielo, la terra (di mezzo) e gli inferi, luoghi di serpenti e draghi.
Dunque, gli Antichi così immaginavano l’universo, come un insieme di mondi sovrapposti tenuti insieme da un albero conficcato nel ventre della terra.
Torniamo allora alla ierogamia, al matrimonio mistico fra Gea e Urano e alle innumerevoli forme prese da queste due divinità in seguito, alle loro mutevoli facce.
Con l’arrivo dei Dori le genti mediterranee parvero dimenticare la madre Terra o Gea che dir si voglia e perfezionarono un campionario di dee all’apparenza molto diverse tra loro. Era, la superba moglie di Zeus, dagli occhi di bue come Omero la descrive, era dunque il retaggio di un culto più antico, legato alla terra e alla vegetazione. Il suo nome ha forse a che fare con le Horae, le divinità delle stagioni e del mutare del clima. Artemide, la Potnia Theron, la signora degli animali, viveva nei luoghi selvaggi e si dedicava alla caccia. Atena, dall’occhio azzurro, personificata nella civetta, era la dea alata come la Nike che la seguiva e con cui a volte era scambiata. Atena, protettrice della città di Atene, a cui aveva donato l’ulivo, si presentava a volte ai marinai come la Lilith con cui condivide l’aspetto di uccello. E per ultima Afrodite, la dea carnale dell’amore inteso come motore universale di vita e crescita, secondo le immortali parole di Lucrezio, dea nata dalla spuma del mare. Rimane Demetra ma per lei sarebbe meglio un saggio a parte.
È chiaro che le dee femminili della Grecia classica altro non sono che personificazioni di un’unica immagine, grande e potente, nelle sue tante sfaccettature, la Dea Madre le cui tracce si trovano ancora chiare dopo molti secoli, nei luoghi più impensati.
D’altra parte cosa sono le divinità maschili se non altrettante personificazioni del cielo? Di Apollo il lucente abbiamo già detto. E di suo padre Zeus? Padrone del cielo, avendone preso il trono dopo Urano e Saturno, signore dei fulmini e reggitore dei destini dell’uomo, egli è il padre degli dei, il dio cielo per eccellenza. Non per niente la radice di Zeus, Djeus, ha dato in latino dies, in inglese day, il giorno, la luce insomma e lo scorrere del tempo. Poseidone, (il dio delle acque certo, ma da dove provengono le acque se non dal cielo?), scuotitore della terra, era in grado di provocare oltre che i maremoti anche i terremoti. Come sarebbe possibile per un dio del mare se non fosse che egli è comunque sposo della terra? E per ultimo Ade, il reggitore degli Inferi, sposato, guarda caso, con Persefone, figlia di Demetra, la dea madre per eccellenza il cui culto è legato spesso ai luoghi inaccessibili, ai monti e alle grotte, il cui volto è scuro come la terra che protegge e incarna, come le Vergini Nere che costellano l’Europa.
Dunque, sono davvero così lontani terra e cielo? E chi ha ragione, dopotutto, Fraser o De Santillana? Proprio quest’ultimo spiegò che gli Antichi studiavano il cielo per conoscere meglio lo scorrere del tempo e delle stagioni, oltre che per rintracciare uno scopo e una spiegazione alla vita stessa. Prevedere il mutare delle stagioni e del clima non erano certo occupazioni oziose per gli Antichi ma legate al lavoro dei campi, alla coltivazione della terra affinché essa fosse generosa e fruttifera.
Cielo e terra, dunque, non erano poi così lontani. Sono state le tradizioni successive, la nostra visione “cristiana” del maschile e del femminile, a dividerli ed è con questi occhiali distorti che abbiamo interpretato le storie del passato e i suoi principali attori, ritenendoli antagonisti, portatori di valori antitetici senza avvederci che le tracce della loro unione, della loro collaborazione, erano ben presenti fin dall’alba dei tempi.
La pioggia bagna la terra che poi si riempie di frutti, il sole bacia la terra con i suoi dardi acuminati… non sono forse simboli di quell’antica unione mistica?

Lance, dardi, spade sono sempre stati interpretati dagli studiosi come simboli solari. E mi sembra che una mitica spada nella roccia, un dardo solare nel ventre terra, sia sepolto ancora da qualche parte in Toscana, in un tempio rotondo come la Tholos, storicamente dedicata ad Atena, ma legata a culti ctonii, che campeggia tra l’erba alta, nella valle al di sotto del santuario di Delfi.

mercoledì 25 maggio 2016

Gobleki Tepe, la collina tondeggiante

E' così che si può tradurre il nome del sito più misterioso di tutti i tempi, almeno per il momento.
Siamo in Turchia, nella provincia di Sanliurfa, in un sito archeologico che sta sovvertendo le sicurezze di secoli di ricerca.
Perché?
Perché se la datazione e l'interpretazione che ne è stata fatta finora fosse corretta, bisognerebbe riscrivere la storia dell'uomo e del suo rapporto con la spiritualità.
Quello che colpisce del sito e che gli è valso il nome di "Stonhenge del Vicino Oriente" è la presenza di una serie di cerchi concentrici di pietre variamente istoriate con immagini di animali più o meno stilizzati. Non si tratta quindi di imponenti pietre grezze appena sbozzate, come in Gran Bretagna, ma di blocchi squadrati e riccamente lavorati.


Secondo gli archeologi, la strana forma a T dovrebbe rappresentare un corpo umano stilizzato. Sul significato di questa interpretazione però vorrei tornare dopo.
Dunque, niente di nuovo, almeno all'apparenza. Un sito molto vasto, in gran parte ancora da esplorare, con dei Dolmen solo più curati dei loro corrispondenti britannici.
Il punto però è che Gobleki Tepe risalirebbe al 9500 a.C.
Esatto. Non era ancora nemmeno iniziata la rivoluzione neolitica, eppure l'uomo, in questa parte del pianeta, sembrava già capace di concepire l'idea di un luogo sacro a cui dedicare anni e anni di lavoro e cure, un luogo sacro in cui tornare in tempi stabiliti per pregare, sacrificare, confrontarsi, raccontare.
Secondo gli studiosi, e basta aprire qualsiasi libro di storia delle superiori per saperlo, in quell'epoca gli uomini erano in grado di fare semplici ragionamenti astratti che niente avevano a che fare con la complessità di una religione. Si è sempre creduto che solo con la sedentarizzazione e l'avvio dell'agricoltura l'uomo abbia cominciato a organizzare il suo pensiero in termini religiosi. Prima esistevano solo semplici pratiche sciamaniche, prima esisteva solo la rozza magia delle popolazioni meno evolute.
E invece...
Invece Gobleki Tepe è preziosa proprio perché ci dice che gli uomini, ancor prima di saper usare la zappa, guardavano le stelle e cercavano risposte alle eterne domande. Già, attraverso questi grandi blocchi di pietra, attraverso la creazione di cerchi concentrici (fino a 20) e attraverso la raffigurazione elegante e aggraziata di animali e piante.


Per quasi un millennio, almeno secondo gli attuali studi, gli uomini di quella parte del mondo si sono dedicati alla costruzione di quest'opera monumentale intorno a cui non sono state ritrovate tracce di insediamento umano. Probabilmente la pietra era destinata agli dei mentre i mortali dovevano accontentarsi di rifugi di pelli e rami secchi.
Per quasi un millennio, gente proveniente anche da luoghi molto lontani si è recata qui per pregare ma anche per contribuire alla crescita di questa meravigliosa fabbrica. Lo dimostrano le recenti analisi alla grande quantità di ossidiana ritrovata nel sito ma proveniente da zone distanti anche 500 km.
Poi, tutto d'un tratto, il sito è stato volontariamente interrato.
Qualcuno ha paragonato Gobleki Tepe all'Eden, il mitico Paradiso Terrestre della Bibbia. L'Eden, con nomi diversi, ricorre nei racconti di moltissime civiltà e potrebbe semplicemente trattarsi della struggente nostalgia nei confronti di una comune casa andata perduta. Ma è anche vero che, in mancanza di nuove scoperte, questo sito si candida a rappresentare il miglior surrogato del Paradiso Terrestre, di una prima casa degli uomini.
Le immagini rappresentate sui monoliti possono solo farci immaginare cosa doveva essere la terra in quel momento e come dovevano sentirsi gli uomini di fronte alla magnificenza di ciò che li circondava. 
Sappiamo che in quei luoghi è nata la nostra civiltà, quella mediterranea prima ed europea poi.
Niente si perde nel tempo, tutto si trasforma e resta immutabile.
Tornando alla forma a T dei monoliti, la rappresentazione del corpo umano in maniera così geometrica si ritrova più avanti nel tempo nelle Cicladi e ancora, nell'età del Bronzo, in Sardegna. 


Ma perché rappresentarne i corpi istoriati con figure di animali? 
Non dimentichiamo che anche i "civilizzati" dei greci avevano un animale totemico, retaggio di un tempo in cui il dio era quell'animale. Le figure zoomorfe potrebbero rappresentare appunto queste divinità in abbozzo o potrebbero essere il tentativo, da parte dell'uomo, di assimilare, attraverso la rappresentazione artistica, le qualità di quegli animali.
Intanto, la ricerca continua ma in attesa di nuovi sviluppi, una cosa l'abbiamo imparata: la ricerca dell'infinito è vecchia quanto l'uomo stesso.

In viaggio verso l'infinito

Ognuno di noi è in cerca di qualcosa, amore, fortuna, successo, il senso della vita, le domande che assillano l'umanità dalla notte dei tempi. Spesso pensiamo di essere soli in questa nostra ricerca, che le nostre domande sono solo nostre e che nessuno potrà mai rispondere se non noi stessi. In parte è vero.
E' vero che solo ciascuno di noi può trovare il senso della vita, ma la vita è un viaggio che si compie insieme agli altri, che ci piaccia oppure no. A volte sono i compagni perfetti, a volte vorremmo farne a meno, in verità però siamo tutti in cerca della stesse risposte.
Non solo. Lo siamo sempre stati.
Cambiano i linguaggi, cambiano i luoghi, i tempi ma la verità è che tutti noi, uomini e donne, abitanti del pianeta Terra, non abbiamo fatto altro per tutta la nostra storia.
La risposta è lì, da qualche parte, ben nascosta oppure ben evidente solo che non siamo in grado di riconoscerla, chissà.
In questo blog, esploreremo il passato in cerca di risposte per il futuro, domanderemo ai nostri fratelli di un tempo come hanno cercato e cosa hanno tentato di rispondere nelle loro ricerche effettuate anche per noi, figli di un lontano futuro.
I miti, le storie, i misteri, i monumenti all'apparenza muti ma così ricchi di cose da dire e poi i libri che hanno esplorato il passato, il futuro, il vasto universo e i mondi paralleli.
Questo viaggio alla ricerca del senso di noi stessi, a disvelare ciò che è precluso ai nostri occhi, è il viaggio verso l'infinito ed è infinito esso stesso perché durerà quanto la storia dell'uomo.
Maya, madre di Buddha, dell'Illuminato, o dea della creazione, perfetto ordine del pensiero del creatore è creatura ma anche creazione, essa è realtà e illusione insieme. Come nel mito della caverna di Platone, gli dei hanno deciso di somministrare agli uomini solo immagini sbiadite e fasulle della realtà. Perché, mi sono sempre chiesta. Platone non lo spiega e neppure i Veda. Gli uomini hanno sempre saputo che è così eppure hanno anche sempre cercato di guardare al di là del velo e della nebbia, rischiando di rimanere abbagliati e inceneriti come Semele di fronte allo splendore di Zeus o Icaro che si libra nell'alto dei cieli.
Forse non arriveremo mai ad una risposta, forse la soluzione sta nella ricerca, nell'infinito scrutare. E allora prendiamo la lanterna e cerchiamo, novelli Diogene, l'uomo.