Chi ha qualche
dimestichezza con la storia delle religioni e l’antropologia non può ignorare
il prezioso contributo di James Fraser che nel suo “Il ramo d’oro”, per la
prima volta, studia i miti e i costumi di popoli antichi e moderni utilizzando
la tecnica comparativa. Questo studio gettò le basi per le future ricerche
antropologiche e religiose anche se alcune scoperte oggi sono state superate.
L’assunto principale dell’opera di Fraser era che, alla base degli antichi
culti e delle usanze di tutti i popoli della terra, vi fosse una radice
“contadina”, legata appunto ai cicli della vegetazione e al variare delle
stagioni.
Quasi mezzo secolo
dopo, Giorgio de Santillana, in collaborazione con Herta Von Dechend, scrisse
il Mulino di Amleto, un libro culto per tutti gli appassionati di
archeoastronomia. Come lo stesso de Santillana afferma nelle prime pagine del
suo libro, James Fraser ha fatto il suo tempo: i miti, le tradizioni che gli
Antichi (sì, proprio con la maiuscola, come fossero un unico popolo) ci hanno
tramandato sono collegati all’osservazione delle stelle e allo scorrere del
tempo.
Questo dualismo fra
cielo e terra piace molto agli studiosi che possono così schierarsi da una
parte o dall’altra. Ma ritengo che le cose non siano così semplici e che gli
Antichi (continuiamo a chiamarli così) non fossero così selettivi
nell’osservare il mondo che li circondava.
L’idea mi è venuta
durante il mio ultimo viaggio in Grecia. A Delfi, alle pendici del monte
Parnaso, ho appreso dell’antico mito della Ierogamia, un matrimonio mistico fra
cielo e terra avvenuto in tempi primordiali per dare origine alla vita stessa.
In quello stesso luogo, durante il diluvio universale, trovarono rifugio
Deucalione e Pirra, l’unica coppia di umani scampati allo eccidio divino, che
lì ricrearono la stirpe degli uomini.
Dunque, cielo e terra
come moglie e marito in grado di generare la vita. Moglie dai molteplici
aspetti, dalle molteplici virtù, marito altrettanto versatile, un po' sole e un
po' pioggia. Tra i miti e i racconti dei secoli passati non è stato difficile
rintracciare i legami e gli indizi che, da Delfi, mi hanno portata anche molto
lontano.
Ma proprio da Delfi
vorrei cominciare questa prima tappa del viaggio. Qui, in tempi storici era
venerato Apollo, il dio della luce, il guaritore, il veggente. La sua
sacerdotessa, la Pizia, nascosta negli anfratti al di sotto del grande tempio,
esprimeva con parole confuse le visioni che il dio le infondeva. Oggi si
ritiene che la sacerdotessa respirasse dei vapori tossici che le procuravano
“visioni” ed “estasi”; le tracce di questi gas sono state ritrovate nelle rocce
sottostanti in tempio.
Ma è sul termine
Pizia che vorrei soffermarmi. Esso deriva dal Python, un mostro ctonio, con un
chiaro legame con la dea terra che qui aveva celebrato il suo matrimonio,
ucciso poi da Apollo. Il pitone, questo grosso serpente, richiama l’iconografia
della dea madre di Creta rappresentata nell’atto di brandire un serpente per
ogni mano. Il serpente è un chiaro riferimento ai culti legati alla terra e lo
troviamo anche in altre culture mediterranee, a cominciare da quel serpente di
origine fenicia, o meglio filistea, che irretì Eva nel giardino dell’Eden.
Ma, scavando nel
mito, attingendo direttamente ad Omero, scopriamo che Apollo, insediatosi nel
suo nuovo santuario, fu chiamato Delfinio. Come ci ricorda Diodoro Siculo,
esperto di antichità, Delfina era il nome di una “draconessa” padrona di quei
luoghi prima dell’arrivo del dio Apollo. Dunque, nella sua forma più arcaica,
il Pitone altri non era che una divinità ctonia femminile.
Robert Graves affermò
che la battaglia fra Apollo e il Pitone e la sconfitta di quest’ultimo non è
altro che il ricordo ancestrale dell’arrivo del popolo nordico dei Dori,
apportatori di una nuova religione, legata al culto astronomico, contro la
religione mediterranea legata al culto solare.
La spiegazione sarebbe
supportata da documenti archeologici che testimoniano il passaggio da un culto
a una divinità femminile a una divinità maschile. Ma se guardiamo
all’etimologia del nome Apollo le cose si complicano un po'. E il nostro
viaggio prende una direzione imprevista.
Ufficialmente il nome
del dio ha un etimo sconosciuto. In verità, se guardiamo non al greco antico,
in cui non si trovano corrispondenze, ma alle altre lingue indoeuropee, vediamo
la somiglianza con Apple (inglese), Apfel (tedesco), o Aval e Afal (bretone e
gaelico) da cui deriva anche Avalon, la mitica isola delle mele di Artù.
Dunque, Apollo collegato non solo a un serpente ma anche a una mela…
Apollo, come lo
stesso mito ci tramanda, veniva dall’estremo nord, dal popolo degli Iperborei e
amava tornare spesso in quelle terre. È questo un indizio per comprendere al
meglio la sua origine?
Sulla mela
bisognerebbe scrivere un trattato a parte, sulle sue risonanze e il suo peso in
racconti e miti lontani nel tempo e nello spazio. Basti ricordare, in questo
contesto, le virtù di Apollo guaritore e la salubrità della mela che, come
frutto risanatore, è riconosciuto da tutti i popoli (una mela al giorno….).
Il monte Parnaso però
custodisce anche un altro mistero, un punto misterioso e magico, legato non
alle stelle, non al culto astronomico di Apollo, così come gli studi ufficiali
ce lo mostrano, ma ancora una volta alla terra, l’Omphalos, l’ombelico del
mondo sotto forma di una pietra, riproduzione romana di una molto più antica.
Dunque Delfi era davvero il luogo di nascita del mondo e dei suoi abitanti, il
luogo in cui Gea e Urano si unirono misticamente. L’Omphalos altri non è che il
simbolo del ventre della Terra, l’ombelico a cui tutti noi siamo legati, il
punto sacro da cui la vita è partita e ha preso la sua strada nel mondo.
Culto della dea
madre, dunque, ma culto anche del cielo nelle nuove vesti di Apollo, custode e
protettore di quei luoghi e dell’Omphalos in particolare. Apollo e il Pitone
insieme o meglio la draconessa, maschile e femminile, celeste e terrestre,
insieme a preservare il luogo da cui è nata la vita.
Questo Omphalos ha
una forma relativamente conica e, nella versione a noi pervenuta, dei disegni a
losanghe e fiori che, nell’interpretazione corrente degli archeologi,
raffigurava la rete di lana che doveva proteggerlo in passato. Nel mito, Zeus,
dio del cielo, mandò due aquile che dai confini del mondo dovevano incontrarsi
nel suo centro e questo centro fu Delfi.
Per i Greci, e per le
genti prima di loro che vivevano in quelle plaghe, Delfi era quindi il luogo
che si identificava con l’Axis Mundi, l’asse del mondo dove l’albero primigenio
sosteneva i mondi, il cielo, la terra (di mezzo) e gli inferi, luoghi di
serpenti e draghi.
Dunque, gli Antichi
così immaginavano l’universo, come un insieme di mondi sovrapposti tenuti
insieme da un albero conficcato nel ventre della terra.
Torniamo allora alla
ierogamia, al matrimonio mistico fra Gea e Urano e alle innumerevoli forme
prese da queste due divinità in seguito, alle loro mutevoli facce.
Con l’arrivo dei Dori
le genti mediterranee parvero dimenticare la madre Terra o Gea che dir si
voglia e perfezionarono un campionario di dee all’apparenza molto diverse tra
loro. Era, la superba moglie di Zeus, dagli occhi di bue come Omero la
descrive, era dunque il retaggio di un culto più antico, legato alla terra e
alla vegetazione. Il suo nome ha forse a che fare con le Horae, le divinità
delle stagioni e del mutare del clima. Artemide, la Potnia Theron, la signora
degli animali, viveva nei luoghi selvaggi e si dedicava alla caccia. Atena,
dall’occhio azzurro, personificata nella civetta, era la dea alata come la Nike
che la seguiva e con cui a volte era scambiata. Atena, protettrice della città
di Atene, a cui aveva donato l’ulivo, si presentava a volte ai marinai come la
Lilith con cui condivide l’aspetto di uccello. E per ultima Afrodite, la dea
carnale dell’amore inteso come motore universale di vita e crescita, secondo le
immortali parole di Lucrezio, dea nata dalla spuma del mare. Rimane Demetra ma per
lei sarebbe meglio un saggio a parte.
È chiaro che le dee
femminili della Grecia classica altro non sono che personificazioni di un’unica
immagine, grande e potente, nelle sue tante sfaccettature, la Dea Madre le cui
tracce si trovano ancora chiare dopo molti secoli, nei luoghi più impensati.
D’altra parte cosa
sono le divinità maschili se non altrettante personificazioni del cielo? Di
Apollo il lucente abbiamo già detto. E di suo padre Zeus? Padrone del cielo,
avendone preso il trono dopo Urano e Saturno, signore dei fulmini e reggitore
dei destini dell’uomo, egli è il padre degli dei, il dio cielo per eccellenza.
Non per niente la radice di Zeus, Djeus, ha dato in latino dies, in inglese day,
il giorno, la luce insomma e lo scorrere del tempo. Poseidone, (il dio delle
acque certo, ma da dove provengono le acque se non dal cielo?), scuotitore
della terra, era in grado di provocare oltre che i maremoti anche i terremoti.
Come sarebbe possibile per un dio del mare se non fosse che egli è comunque
sposo della terra? E per ultimo Ade, il reggitore degli Inferi, sposato, guarda
caso, con Persefone, figlia di Demetra, la dea madre per eccellenza il cui
culto è legato spesso ai luoghi inaccessibili, ai monti e alle grotte, il cui
volto è scuro come la terra che protegge e incarna, come le Vergini Nere che
costellano l’Europa.
Dunque, sono davvero
così lontani terra e cielo? E chi ha ragione, dopotutto, Fraser o De
Santillana? Proprio quest’ultimo spiegò che gli Antichi studiavano il cielo per
conoscere meglio lo scorrere del tempo e delle stagioni, oltre che per
rintracciare uno scopo e una spiegazione alla vita stessa. Prevedere il mutare
delle stagioni e del clima non erano certo occupazioni oziose per gli Antichi
ma legate al lavoro dei campi, alla coltivazione della terra affinché essa
fosse generosa e fruttifera.
Cielo e terra,
dunque, non erano poi così lontani. Sono state le tradizioni successive, la
nostra visione “cristiana” del maschile e del femminile, a dividerli ed è con
questi occhiali distorti che abbiamo interpretato le storie del passato e i
suoi principali attori, ritenendoli antagonisti, portatori di valori antitetici
senza avvederci che le tracce della loro unione, della loro collaborazione,
erano ben presenti fin dall’alba dei tempi.
La pioggia bagna la
terra che poi si riempie di frutti, il sole bacia la terra con i suoi dardi
acuminati… non sono forse simboli di quell’antica unione mistica?
Lance, dardi, spade
sono sempre stati interpretati dagli studiosi come simboli solari. E mi sembra
che una mitica spada nella roccia, un dardo solare nel ventre terra, sia
sepolto ancora da qualche parte in Toscana, in un tempio rotondo come la
Tholos, storicamente dedicata ad Atena, ma legata a culti ctonii, che campeggia
tra l’erba alta, nella valle al di sotto del santuario di Delfi.