lunedì 10 aprile 2017

Quando Berta filava - Penelope tessitrice e le altre

Nel 755 l’imperatrice Koken importò in Giappone la festa cinese di QiXi che venne rinominata Tanabata, la settima notte. La storia che sta alla base di questa festività è quasi del tutto identica sia in Cina che in Giappone e ha a che vedere con divinità celesti che personificano stelle ben precise, Vega e Altair.

Orihime e Hikoboshi

Secondo la leggenda giapponese, Orihime, la stella Vega, viveva sulle sponde del fiume celeste, la Via Lattea. La fanciulla aveva il compito di tessere gli abiti per suo padre Tentei, l’imperatore del cielo, ma il suo compito era così assiduo che non le lasciava tempo per nient’altro e un giorno si sedette sulle rive del fiume piangendo il suo destino e soprattutto per il fatto che non avrebbe mai conosciuto l’amore. Intenerito dalle lacrime della figlia, Tentei decise di darle un marito, Hikoboshi, il mandriano, la stella Altair. I due sposi rimasero insieme per sette anni e non si conobbe mai una coppia più felice di loro. Ma Orihime trascurò gravemente i suoi doveri di tessitrice e il padre Tentei decise di punire gli sposi allontanandoli per sempre, incatenandoli ai lati opposti della Via Lattea. La figlia però, disperata, continuava a piangere e così il padre decise di concederle un momento di tregua a questa dura punizione.

I due amanti si incontrano grazie al volo delle gazze

 Il settimo giorno del settimo mese lunare i due sposi potevano incontrarsi nuovamente. Se il cielo era sereno toccava al traghettatore celeste portare Orihime dal suo sposo ma se la fanciulla non aveva tessuto bene, il padre la puniva riempiendo il cielo di pioggia che avrebbe innalzato le acque del fiume celeste e impedito al traghettatore di compiere la traversata. Allora, solo uno stormo di gazze poteva aiutare i due amanti. Infatti, Orihime poteva incontrare Hikoboshi volando sulle ali delle gazze celesti.


Una volta all’anno, ancora oggi, in Giappone, si festeggia il Tanabata. I fedeli scrivono i loro desideri su foglietti di carta colorati che ricordano i fili tessuti da Orihime. I foglietti vengono poi appesi a rami di bambù e spesso i desideri hanno a che fare con l’amore.
Il mito cinese, da cui il Tanabata prende origine, è praticamente identico a parte il fatto che qui la protagonista Chuh Nu, figlia della dea del cielo, sposa un mortale, un semplice mandriano, Niulang. L’amore tra i due non è stato un dono della madre di lei, anzi Chuh Nu lascia spontaneamente i suoi compiti di tessitrice in cerca di amore e Niulang la irretisce rubandole i vestiti mentre lei fa il bagno. Il finale della storia invece è identico sia in Cina che in Giappone e si può dire che questi due amanti celesti siano così famosi che le feste che li ricordano vengono viste come la versione orientale di San Valentino. 


Orihime e Chuh Nu, i cui nomi significano semplicemente la fanciulla tessitrice, non sono le uniche divinità celesti a praticare quest’arte tipicamente femminile. Piuttosto si può dire che anche altri elementi del loro mito sono rintracciabili in storie anche lontane nello spazio e nel tempo.

Il Kalevala
Si racconta che Vanaimoinen, l’eroe finnico, un giorno iniziò a intonare una meravigliosa melodia che riuscì ad affascinare ogni creatura vivente, non solo mortale ma anche divina.

Paivatar, dea del sole
Paivatar e Kuntar, sorelle figlie della dea del Sole, per qualche tempo scordarono il loro compito di tessitrici proprio ascoltando questa bellissima musica. L’autore del Kalevala ce le dipinge sedute su nuvole di colore rosso, alla fine di un lungo arcobaleno. L’arcobaleno, in questo caso, è la Via Lattea dove le due sorelle tessono vesti d’oro e d’argento per gli altri dei. Paivatar rappresenta l’estate, l’aurora, il giorno e usa l’oro nel suo lavoro.

Kuntar, dea della luna
 Kuntar invece rappresenta il crepuscolo, la neve dell’inverno, la luna e usa l’argento. Le due fanciulle sono seguite da uno stormo di uccelli non meglio identificati.

I Balcani

Ancora una volta, il sole è identificato con una divinità femminile, Saule. Madre Sole vive nel cielo insieme alle sue figlie, le stelle. Il loro compito principale è filare e tessere i raggi del sole, la luce e i colori del cielo.

Madre Saule
 Come stiamo osservando, in molte culture il sole è una divinità femminile. Non dimentichiamo che nel pantheon nipponico, ad esempio, la dea più importante, da cui discendono tutti gli imperatori del celeste impero, è Amaterasu, dea del sole, anche lei patrona della tessitura.

Egitto

L’antico Egitto rappresenta, per certi aspetti, un’eccezione notevole. Mentre, in tutte le altre culture, la tessitura era un lavoro strettamente femminile, in Egitto anche gli uomini questo compito, soprattutto sui telai verticali, più faticosi da manovrare. In ogni caso, le divinità preposte a questa occupazione erano sicuramente donne.

Neith
 La più antica è Neith, madre del dio Rha, colei che è, secondo il significato del suo nome. È una dea difficile da definire proprio perché remota ma anche perché in epoca storica venne semplificata e “addomesticata” dato il suo passato di divinità femminile predominante in un mondo ormai dominato dagli uomini. Neith era la dea preposta alla vita, intrecciava e tesseva reti con cui catturava gli esseri viventi. Era dunque la dea della vita ma anche della morte e del parto dato che fu la prima a sperimentare questa fatica delle donne dando alla luce Rha, il sole.

Iside
L’altra dea legata al telaio è Iside, la grande dea egizia di epoca storica, che inventò questo strumento e lo donò agli uomini. Simili a Iside sono Tanit, dea fenicia, e Astarte o Ishtar, dea mesopotamica. Tutte presiedono al matrimonio, alla fertilità, alla guerra e lavorano al telaio.



Il RigVeda
L’aurora per gli indiani era annunciata da Usas. Il nome proviene dalla stessa radice dell’Aurora romana ed è stretta parente anche della greca Eos. Usas possiede un carro con sette cavalli o meglio sette buoi con cui porta la luce nel mondo ogni mattina.

Usas 
 I sette buoi ricordano i septem triones, i sette buoi dell’Orsa che corrispondono al Nord e non è un caso che il numero sette ricorra in molte delle storie che abbiamo incontrato finora e in altre che hanno a che fare con il sole. Lo stesso Apollo nacque dopo una gestazione di sette mesi, sette giorni in ritardo rispetto alla sorella Artemide e i cigni che assistettero al parto volarono sette volte intorno a Leto.
Usas guida dunque un carro tutto d’oro e scaccia con la sua venuta gli spiriti notturni. Il suo colore è il rosa o il rosso, come le nuvole su cui siedono Paivatar e Kuntar.

Le fanciulle cigno

In Irlanda si racconta di Angus Oeg, il cui nome vuol dire “forte canto”. Figlio di dei, dio dell’amore lui stesso, si dice che una notte sognò la sua futura sposa sotto l’aspetto di un cigno. Trovò lei, Caer Ibormeith, e le sue centocinquanta compagne sotto forma di cigno presso le rive di un lago. Esse erano costrette a rimanere sotto quell’aspetto da Samhain a Beltain, ovvero da novembre a maggio che per i paesi del nord Europa corrispondono all’inizio dell’inverno e della primavera. Caer era una fanciulla tessitrice, così disse a Angus, e lo pregò di trovarla e liberarla. Infatti, solo se l’avesse riconosciuta in mezzo alle altre, l’avrebbe avuta in sposa. Angus trasformò sé stesso in un cigno, cominciò a cantare e lei lo seguì.

Il sogno di Angus
È interessante notare qui come le fanciulle sono costrette a rimanere sotto l’aspetto di cigno quando il sole è meno forte nel cielo e come il loro ruolo di tessitrici quindi si interrompe nei mesi più freddi. Inoltre anche qui sono legate alla figura di un uccello, il cigno che abbiamo già incontrato nel mito di Apollo e come il canto ha un ruolo salvifico nella storia.
In ultimo, Angus Oeg è figlio di Boann, una dea vacca le cui gocce di latte nel cielo hanno formato la Via Lattea. Questo spiega forse cosa ci faccia un mandriano come Hikoboshi in mezzo alle stelle.

Grecia e Roma
Nella Roma arcaica molte erano le leggi bizzarre imposte al popolo, legate più alla superstizione che a un’effettiva utilità pubblica. Tra queste, quella che proibiva alle donne di tessere in pubblico perché portava sfortuna all’uomo che le avrebbe viste.
Probabilmente i Romani avevano perso il senso profondo di questo precetto e forse anche noi siamo lontani dal comprenderlo. In ogni caso Romani e Greci erano accomunati anche dal culto verso due divinità molto simili, Eos e Aurora. Entrambe guidavano un carro con due cavalli solari, Splendente e Focoso, e coloravano il cielo mattutino con le loro dita rosa.

Eos sul suo carro dorato
 Eos era sposata con un mortale come Chih Nu ma stavolta la storia non ha alcun tipo di lieto fine. Titone era un giovane bellissimo, fratello di Priamo, ed era abile a suonare e cantare. Eos, innamorata, chiese a Zeus l’immortalità per il suo sposo e Zeus gliela concesse senza suggerirle che questo dono sarebbe stato anche la sua condanna. Titone infatti non può morire ma invecchia e diventa sempre più orribile finché la dea non lo trasformerà nella cicala. I suoi figli moriranno entrambi e la dea li piangerà ogni giorno, candide e copiose lacrime coprono infatti la terra ogni mattino: la rugiada.
La tessitura invece è dominio di Atena, la dea in armatura che condivide con Neith questo doppio ruolo di dea guerriera e patrona delle arti femminili. Atena, nata dalla testa di Zeus, il cui simbolo è la civetta, punisce la povera Aracne trasformandola in un ragno che tesse una tela destinata a essere sempre strappata.


 Probabilmente il ragno era un tempo immagine stessa della dea e simbolo solare ben evidente. Il corpo del ragno è il nucleo dell’astro mentre le sue molteplici zampe sono i raggi del sole.

Fra i Norreni

Anche fra i Norreni esisteva una dea che guidava il carro del sole. Era Sol o Sunna, da cui sun in inglese, e possedeva due cavalli molto simili a quelli di Eos anche nei nomi: Arvak, la prima alba, e Alsid, l’arsura. Il padre di Sol era Mundifarre, il filatore del mondo, l’uomo mortale che presiedeva al Mulino cosmico, che conosceva la misura di ogni cosa.

Sol e Mani
Sol e suo fratello Mani, la luna, erano dunque figli di un mortale, anche se così speciale, e divennero dei come punizione per l’arroganza del loro padre che li paragonò a due astri.
Frigg invece era una dea di razza, moglie di Odino e figlia della Terra. Era la protettrice dei matrimoni e suo era il Filatoio di Frigg ovvero la cintura di Orione.

Frigg mentre lavora al fuso
 Era proprio Frigg a far girare le stelle grazie alla spoletta del suo telaio. Quando Odino errava per il mondo, i suoi fratelli, Vili e Ve, comandavano la reggia celeste sedendo al suo posto. Loki, sempre un po' maligno, accusò ingiustamente Frigg di tradire il marito con i due cognati. La dea, inoltre, possedeva un mantello di piume di falco con cui poteva volare.

Frau Holle
Nei racconti folclorici tedeschi, si trova lo strano personaggio di Frau Holle. Come Frigg anche lei è patrona delle paludi e, in tempi anche recenti, venivano abbandonati corpi soprattutto di bambini e fanciulli morti in queste acque stagnanti. Holle deriva da Hell, gli inferi, in inglese moderno Hell, l’inferno.

Hel
 Per i norreni era uno dei regni cosmici, il luogo in cui giungevano le anime di coloro che non erano accolti nel Valhalla. Hel era figlia di Loki e presentava una duplice natura: il suo volto era per metà giovane e per metà cadaverico. Frau Holle è la versione popolare, ormai priva di ogni elemento divino della precedente Hel. Per giungere a lei bisogna scendere attraverso un pozzo che portava giù fino al nord celeste. 

Frau Holle
La sua duplice natura la collega a Perchta o Berta, divinità dell’Italia alpina, mezza giovane e mezza vecchia. Perchta vuol dire splendente, bianca eppure la sua prosecuzione moderna è solo nella figura di vecchia megera anche se il suo ruolo principale è quello di portare dolci ai bambini buoni alla fine di Yuletide, il giorno dell’Epifania.

Perchta
 Sì, proprio la Befana, la proverbiale Berta che filava che ricorda tempi passati che non ritornano più. Il suo aspetto cangiante e il nome ricordano la Luna così come il fatto di essere collegata a tutti gli esseri viventi, anche agli animali, come Artemide, Potnia Theron. La Befana non per caso viaggia a bordo di una scopa. Si raccontava infatti di Hel che, quando visitava il mondo, portava malattia e morte e se usava la scopa non c’era scampo per nessuno.

Omero

Nei poemi omerici troviamo molte figure di donne tessitrici. Elena, nell’Iliade, è raffigurata nell’atto di tessere un prezioso tessuto di broccato in cui vengono rappresentate scene della guerra di Troia. Calipso e Circe tessono e cantano e pare che per Omero le due occupazioni siano strettamente legate. Ma anche in molte altre culture tessere è sinonimo di cantare, imbastire canti. Circe è la figura più interessanti fra le due amanti di Ulisse perché figlia del dio Helios, proprietaria di un cocchio solare e tessitrice di abiti per il suo divino padre.

Calipso
Ma la tessitrice per eccellenza nell’Odissea è sicuramente Penelope.
La moglie di Ulisse vanta un nome raro e bizzarro che significa anatra e che nessun’altra porta nella mitologia greca se non vogliamo credere che la madre di Pan e moglie di Ermes sia un’altra persona. Il mito racconta che il padre Icario ascoltò su di lei un vaticinio, quando era ancora una bambina: avrebbe tessuto il sudario del padre. Icario lo interpreta nel modo peggiore, crede che la figlia finirà per ucciderlo e decide di prevenire il fatto uccidendola prima del tempo. Penelope viene gettata in mare ma saranno gli uccelli di cui porta il nome a salvarla. Oltre al fatto che il mare è l’elemento di sua madre, Peribea, una Naiade.

Penelope
Penelope viene poi fatta sposa da Ulisse il quale la preferisce alla cugina Elena. Mentre tutti i principi di Grecia sgomitano per avere la più bella Ulisse preferisce questa fanciulla più quieta e meno pericolosa. Elena tesse una tela di porpora in cui Greci e Troiani si sfidano a morte, il suo volto bellissimo è fatale a chi la insegue. Penelope invece diventerà la sua compagna ideale. Ella è in grado di aspettarlo per lunghi anni mentre la sua casa è insidiata dai Proci. Nell’attesa, e per ingannare i pretendenti, Penelope tesse il sudario del suocero. Questa tela è destinata a non essere mai completata ma ha un ruolo importante nel poema. La regina di Itaca la tesse di giorno e la disfa di notte, un tessuto tutto bianco, senza alcun disegno, al contrario di quello di Elena, splendente come luna e stelle, secondo le parole di Omero. La luna e le stelle che brillano nel sentiero del cielo, lo stesso che Ulisse attraversa nel suo viaggio. Il sole scende nel mondo dei morti e conosce egli stesso la morte. Nelle sue peregrinazioni va verso ovest, attraversa i luoghi del cielo più freddi e oscuri, visita i morti e poi ritorna. Quando Ulisse torna è così cambiato che nessuno lo riconosce, nemmeno la sua fedele moglie. Solo nel giorno del solstizio egli risorge in tutta la sua gloria. Il sole che muore e risorge ogni giorno come la tela di Penelope viene fatta e disfatta ogni giorno, il sole che attraversa le sedi del cielo boreale e viene insidiato dagli spiriti della notte nel lungo inverno ma risorge all’apice del solstizio.
Ulisse massacra i Proci
Penelope condivide con le sue colleghe tessitrici la figura dell’uccello, l’attesa e la fedeltà verso lo sposo come la sfortunata Orihime, il lavoro al telaio come sinonimo di destino ed eterno ritorno. Ecco perché i Romani non volevano vedere una donna lavorare al telaio, in essa rivedevano le antiche dee intente a filare il destino di vita e di morte degli uomini. Come Frigg che nei suoi tessuti inseriva i fili delle Norne così ognuna di queste dee tessitrici, anche Penelope, è più di una semplice custode di un lavoro femminile. In lei rivive l’antica dea che presiedeva, come Neith, come Hel, come Amaterasu, al ciclo della vita e della morte. 

mercoledì 8 marzo 2017

I SENTIERI DELLA NOTTE E DEL GIORNO - una prima tappa nei viaggi di Ulisse

Quando si pensa alla figura di Ulisse, si ha subito di fronte un uomo maturo, abile navigatore, di sciolta favella, uno di quegli uomini che sanno affascinare il pubblico, soprattutto femminile, con i racconti avvincenti dei loro viaggi e, allo stesso tempo, in grado di guadagnarsi la fedeltà della paziente moglie.

Ulisse, affresco pompeiano

Nell’immaginario collettivo, Ulisse è il re di una piccola isola, Itaca, posta a occidente della Grecia, un’origine poco fortunata, quasi oscura, che però si riscatta grazie alle prodezze compiute prima durante la guerra di Troia e poi come protagonista di un poema tutto suo, l’Odissea. Secondo la scansione cronologica tradizionale, infatti, l’Iliade è un poema più antico rispetto all’altro racconto omerico. Molti indizi portano verso questa affermazione e non riguardano solo la cronologia interna. Anche il modo di concepire la società, patriarcale e strettamente legata al concetto di onore, la cosiddetta “cultura della vergogna” sono aspetti che scompaiono o comunque si attenuano nell’Odissea. Ulisse non si fa prendere facilmente dalla collera come Achille o Agamennone, sempre pronti a difendere il proprio onore con la spada in mano e non combatte per la propria patria solo per paura di come lo giudicherebbero gli altri, come confessa Ettore alla moglie Andromaca. Altrimenti non comparirebbe sotto le sembianze di un vecchio mendicante nella reggia da cui mancava da vent’anni e non si lascerebbe prendere in giro dai pretendenti che occupavano abusivamente la sua casa, insidiando sua moglie e umiliando suo figlio e il suo stesso nome.

Argo incontra Ulisse

Ulisse è il paziente, il saggio, colui che trova sempre nella ragione la giusta svolta, la chiave del successo delle proprie imprese. Eppure, secondo l’etimologia tradizionale, il suo nome dovrebbe significare l’iroso, l’odiato. Sempre se Odisseo, il nome omerico del nostro eroe, sia un termine di origine greca. Perché alcuni indizi farebbero pensare il contrario. Odisseo, in molti dialetti greci, diventa infatti Olysseus (da dove il nostro Ulisse) dove il suono d diventa l o viceversa. Ma questo cambiamento di suono non trova attestazioni nella lingua greca mentre potrebbe benissimo suggerire un’origine pregreca del nome.
Sappiamo come alcuni personaggi del mito, alcuni cosiddetti semidei o eroi della Grecia classica, non erano altro che vecchie divinità “declassate”. Lo erano sicuramente Achille o la stessa Elena. Lo è anche il nostro Ulisse che prima di essere impiegato come re di un’oscura isoletta era, con molta probabilità, un dio solare.
Uno dei primi indizi risiede nell’arma preferita dell’eroe, l’arco. Nell’Iliade quest’arma non compare mai di certo perché per l’autore del poema era difficile inserirlo nei combattimenti corpo a corpo che avvenivano davanti alle mura di Ilio. L’arco comparirà nella materia iliadica, ma non in Omero, come arma di morte di Achille ucciso da Paride che lo colpirà al tallone sotto la guida di Apollo. Paride, eroe protetto da Apollo, dio della luce, guarda caso predilige l’arco. Arco che viene suggerito anche dal nome del figlio più famoso di Ulisse, Telemaco, colui che combatte da lontano. Si sa che nei secoli bui del Medioevo, i secoli della cavalleria in armatura pesante, l’arco era l’arma dei vigliacchi, di coloro che rifiutavano il combattimento alla pari, faccia a faccia. L’arco è infatti l’arma di Robin Hood, un bracconiere e fuorilegge. Ma nella Grecia classica, l’arco era l’arma di Apollo ed è facile intuire il legame fra i dardi scoccati dall’arma e i raggi del sole.

la gara dell'arco

Nella parte finale dell’Odissea, il nostro eroe compirà la sua apparizione ufficiale di fronte ai suoi nemici proprio tendendo un favoloso arco che nessun’altro può tendere a parte lui. La freccia da lui scoccata passerà attraverso dodici cerchi in fila uno dietro l’altro. Qualcuno potrebbe dirvi che il dodici è un numero che si ripete spesso nel linguaggio delle favole ma non sarebbe altrettanto disponibile a spiegarvi perché.
Nel caso di Ulisse, il perché è abbastanza chiaro e gli indizi sono presenti già nella narrazione dell’episodio. È proprio durante il solstizio d’estate che avviene la strage, che Ulisse torna in tutto il suo splendore facendo passare alla sua freccia le dodici scuri che, a questo punto, rappresentano le dodici case dello zodiaco o, se volete, i dodici mesi dell’anno. L’arco è legato al sole non solo per la similitudine raggi solari/frecce ma anche per lo strumento con cui si accendeva il fuoco, un piccolo punteruolo di legno che sfregava contro la pietra mosso proprio da un archetto.

la strage dei Proci

Il giorno precedente alla strage, Ulisse e suo figlio nascondo le armi che abbellivano le pareti della sala dei banchetti in modo che l’indomani i Proci si trovassero disarmati. Le custodiscono in una sala che Omero chiama talamo, una sorta di camera ipogea eppure Telemaco si stupisce, ma solo lui, di quanta luce vi sia in quella stanza. Le pareti brillano: “Padre mio, quale spettacolo vedono mai i miei occhi: mi sembra che le mura di tutta la casa, e le belle campate, le travi di pino e le alte colonne splendano come fuoco che arde. Qui dentro c’è uno dei numi che possiedono il cielo vastissimo.”
È sera inoltrata, tutti sono andati a dormire eppure quella stanza brilla di luce. Un mistero? Affatto. Il giorno dopo proprio il superbo Antinoo ci comunica che: “Oggi, in paese, c’è la festa sacra di Apollo.” Diventa abbastanza chiaro che si sta parlando del solstizio d’estate. Il sole torna in tutto il suo splendore, nella sua casa, e distrugge con i suoi dardi infuocati gli ultimi nemici, gli oscuri resti del suo nemico inverno.
Ulisse dunque era in passato una divinità solare. Gli indizi non sono limitati all’episodio della strage dei Proci, certamente, né al nome del figlio o all’uso dell’arco. Gli indizi sono disseminati in tutto il poema. Non è in questa sede che possiamo dissertare dei frammenti di questa verità ma mi piacerebbe iniziare il nostro viaggio insieme al dio Ulisse partendo da una delle tappe meno conosciute, la terra dei Lestrigoni.
I Lestrigoni attaccano le navi di Ulisse, affresco romano

Volendo riassumere brevemente l’episodio, Ulisse ha da poco lasciato l’isola fluttuante del benevolo Eolo il quale ha donato al nostro eroe un otre in cui aveva rinchiuso tutti i venti tranne Zefiro, favorevole al suo ritorno a Itaca. I compagni di Ulisse però invidiosi e sospettosi aprirono l’otre e scatenarono una tempesta che provocò la morte di molti di loro e molti giorni di viaggio in mare senza governo delle navi. Infine, dopo sei giorni, al settimo giunsero in questo luogo sconosciuto che Omero chiama testualmente “la scoscesa rocca di Lamo, Telepilo Lestrigonia”.
I geografi dell’antichità come pure i moderni studiosi si sono disperati cercando di localizzare la terra dei Lestrigoni in base agli scarsi indizi di Omero. Scarsi e alquanto enigmatici. Si è persino giunti a dire che Omero non sapeva nulla di geografia perché le descrizioni dei luoghi nei suoi poemi non corrispondono a quelli reali. Sempre che debbano corrispondere a luoghi reali.
Partiamo dal nome del luogo: Lamo. La parola richiama da subito l’avidità, la golosità degli abitanti dell’isola che infatti non si cibano d’altro che di carne umana. Più difficile da interpretare è il secondo dei nomi: Telepilo. Si tratta di un nome dal significato trasparente, la porta lontana, collegato al nome del luogo Lestrigonia. Nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione convincente di quest’ultimo nome che potrebbe quindi essere di nuovo pregreco come quello di Ulisse. Ma la porta lontana potrebbe aiutarci in qualche modo.

dal Silmarillion

Parmenide, nel suo poema filosofico, racconta di essere stato trasportato dalle cavalle del carro del sole fino a un’enorme porta di bronzo, la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno. Il viaggio del filosofo verso la verità procede attraverso questa porta eretta nell’etere. Insomma, essa “fluttua” in mezzo al cielo. Guarda caso, Notte e Giorno sono scritti in maiuscolo a sottolineare che non si parla del tempo degli uomini che si avvicenda sulla terra ma di due personificazioni, della versione divina di essi. Il Giorno e la Notte si avvicendano nel mondo passando per questa porta che non è un’invenzione di Parmenide ma appare ancora prima nell’Odissea. Tanto vicini a Telepilo, alla porta lontana, sono i sentieri del Giorno e della Notte che un pastore potrebbe guadagnare doppio stipendio facendo pascolare lì vicino il suo gregge. Sono le parole di Omero difficili da spiegare se interpretate in senso letterale. Molti hanno pensato che nella terra dei Lestrigoni le giornate sono molto più lunghe, forse si tratterebbe di un luogo dell’estremo nord dove in estate il sole non tramonta mai. Bene, ma allora perché ricorrere all'immagine della porta? Perché il riferimento al Giorno e alla Notte? Forse perché quella è la porta del tempo, una delle porte cosmiche che abitano il cielo, l’Okeanos di cui abbiamo già parlato, il grande mare di stelle e acqua che circonda il cosmo. Questo mare è costellato di mondi molto diversi e lontani dal nostro, mondi con regole del tutto differenti, in cui ci si può imbattere in popoli che mangiano carni umane, creature mostruose e gigantesche che vivono a ridosso di queste porte. Un ipotetico pastore astuto potrebbe passare di qua e di là dalla porta cosmica per trovare sempre il Giorno e quindi guadagnare doppio stipendio.


Se non è ancora chiaro, se il riferimento a Parmenide non è sufficiente, si può sempre ricorrere a Esiodo. Atlante regge il cielo nell’estremo Occidente, al di là dell’Okeanos, là “dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l’uno per scendere dentro l’altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l’uno fuori della casa la terra percorre e l’altro dentro la casa aspetta l’ora del suo viaggio fin che essa venga”. Siamo nella Teogonia e nei versi precedenti si parla proprio della terribile casa della Notte.
Sembra chiaro che Parmenide, Esiodo e lo stesso Omero facciano riferimento a una conoscenza comune, un topos letterario ben preciso.
Descrivere con queste precise parole la Lestrigonia dalla lontana porta non è solo un modo per condurre il lettore in un luogo remoto, selvaggio, in una geografia imprecisata. È proprio il concetto di geografia che è sbagliato perché qui non siamo sulla terra, sulla terra calcata dagli uomini, quella che i norreni chiamerebbero Midgard, la terra di mezzo. Qui, in Lestrigonia, siamo lontani certo, ma così lontani che abbiamo varcato persino l’Okeanos e stiamo navigando sul vasto mare del cielo.

Sebbene un cannibale, il re Antifate è un “profeta” come afferma il suo stesso nome, colui che parla per la bocca di un dio. Quale dio è difficile da riconoscere, quale degli dei olimpici lascerebbe compiere tale scempio? Quale degli dei olimpici lascerebbe che quasi tutti i compagni di Ulisse sopravvissuti fino a questo momento morissero in quel modo, cannibalizzati da questa gente? 


Nessuno, ovvio. Non credo che nemmeno Poseidone potesse. Forse però gli dei primordiali che abitavano vicino alle porte della Notte sì. Parliamo della figlia del Chaos, sorella di Erebo, l’eterna notte infernale, parliamo della madre del Giorno, come la dea Nott norrena, ma anche madre del Sonno e della Morte, delle vendicative Erinni e di Eris, la dea che diede inizio alla guerra di Troia. È probabile che i Lestrigoni facciano parte delle sue schiere. È quindi probabile che Ulisse navigasse molto lontano dall’assolato Mediterraneo e percorresse le immense distese del cosmo fin dove nemmeno gli dei olimpici avevano l’ardire di spingersi. 

lunedì 23 gennaio 2017

Il mito dell'orsa fra culti astrali e feste rurali

Callisto, la bellissima, era una ninfa della corte di Artemide. Come spesso capitava a creature così belle, Zeus la desiderò e da questa unione nacque un bambino, Arturo. Artemide, però, infuriata con la ninfa che non aveva rispettato il voto di castità imposto a tutto il suo corteggio, trasformò Callisto in un’orsa. Il piccolo Arturo crebbe come pastore e cacciatore e un giorno si imbatté in sua madre. Pur non riconoscendola, Arturo tentennò di fronte alla bestia, incerto se ucciderla o meno. Zeus lo tolse dall’imbarazzo trasformando il giovane e sua madre nelle costellazioni del Bootes e dell’Orsa Maggiore.

La costellazione di Bootes. Hevelius

Un giorno Ecuba fece un sogno sul bambino che teneva in grembo. Sognò che avrebbe partorito una torcia infuocata che avrebbe distrutto la città di Troia di cui era regina. Terrorizzata, rivelò il contenuto dell’incubo al marito Priamo e insieme decisero che, per il bene della città, il nascituro doveva essere abbandonato. Il luogo scelto fu il Monte Ida dove i genitori si aspettavano che il bambino sarebbe morto in breve di stenti. Invece, il piccolo Paride venne cresciuto da un’orsa e così, negli anni divenne un bel giovinetto. Lo stesso fanciullo che, con il giudizio delle dee e il rapimento di Elena, avrebbe dato il via a una guerra che avrebbe distrutto la sua città natale, Troia.

Paride consegnato ai pastori . Camuccini

Atalanta, l’instancabile, quando nacque non fece la felicità di suo padre Scheneo, tutt’altro. Il buon padre voleva un maschietto, come recitava la sigla di un famoso cartone animato. Ma nel caso di Scheneo, egli non tentò di allevare sua figlia come un uomo, piuttosto l’abbandonò nella foresta dove venne allevata, guarda caso, da un’orsa. Più tardi, Artemide (sempre circondata da orse!), decise di prendersi cura della bambina che crebbe insieme alle sue ninfe, dedicando la sua vita alla caccia e pronunciando il doveroso voto di castità.

Atalanta e Ippomene. Guido Reni

Se consideriamo tutti e tre i miti, ritroviamo un elemento in comune che è la presenza dell’orsa. Nel caso del primo mito, l’orsa è anche celebrata, alla fine, nella sua trasformazione in costellazione, negli altri l’orsa rappresenta una fase primordiale dello sviluppo dell’eroe o dell’eroina. In due dei tre miti è presente anche la dea Artemide, una delle dee dal carattere più forte, la più intransigente sotto il profilo della condotta sessuale. Artemide impone la castità sia ad Atalanta, che poi se ne libererà con uno stratagemma più o meno voluto, che alla povera Callisto che, pur essendo vittima di violenza, verrà ugualmente punita dall’inflessibile dea.
Solo nel mito di Paride Artemide non compare né quando l’eroe viene abbandonato appena nato né quando dovrà scegliere la dea più bella. Artemide non fa parte della triade divina però la sua assenza non deve trarci in inganno. Abbiamo già parlato del Monte Ida, anzi del doppio monte Ida e del significato del suo nome. Sappiamo che era sede di culto della dea madre e Artemide, la Potnia Theron, la signora degl animali selvatici è chiaramente una delle incarnazioni della Madre.

Artemide- Potnia Theron. Pittura vascolare Grecia arcaica

C’è un altro punto che potrebbe rendere questo collegamento più certo. Se guardiamo all’etimologia, Arturo può condividere la sua origine con il termine islandese art o il gallese arth. In greco orso si diceva arktos da cui anche la parola artico e Arturo significherebbe guardiano dell’orsa: arktos e ouros. La maggior parte degli studiosi però rigettano l’ipotesi che il nome Artemide abbia a che fare con la stessa radice anche se poi non sono concordi nel trovare il vero significato di questo nome.
Però, tra i popoli celtici era venerata una dea di nome Artio. Lo dimostrano alcune iscrizioni latine di cui una trovata a Berna il cui simbolo araldico è appunto l’orso (vedi il nome Bjorn). Artio è raffigurata su di un carro, accanto a un grande orso. Artio è la dea della caccia, dei frutti e dell’abbondanza e il fatto che la mittente della dedica fosse una donna, Licinia Sabinilla, lascia immaginare che Artio condividesse con la collega Artemide anche la protezione delle donne e dei loro frutti, i bambini. Da qui probabilmente l’insistenza dei miti greci nel proporre spesso un’orsa come prima nutrice di piccoli d’uomo. Dopotutto, non bisogna essere esperti di etologia per sapere che le orse sono molto protettive con i loro cuccioli.


Il collegamento Orsa/Luna non è così peregrino come potrebbe sembrare a un primo impatto. Secondo le conoscenze di molte civiltà contadine, verso i primi di febbraio l’orso si svegliava appena dal suo letargo, usciva dalla tana e osservava il cielo notturno. Se la luna era piena, allora poteva dormire altri quaranta giorni, ma se la luna non era visibile, allora la primavera era alle porte.
Ci sono molte feste che celebrano questo legame fra l’orso e la luna sia nel nord Italia, in Valle d’Aosta e in Piemonte, che in Sicilia, a Saponara, dove proprio per Carnevale si svolge un corteo con un uomo travestito da orso. Anche in Inghilterra, nel Fenland, l’inizio dell’anno agricolo comincia con un uomo travestito da orso che gira per le case portando il lieto annuncio. Non mancano poi culti dedicati a Sant’Orso, un nome che nasconde il ricordo di riti pagani più antichi.

Carnevale di Saponara. L'uomo - orso

All’apparenza, sono semplici culti rurali legati ai cicli della natura, in cui la luna riveste il ruolo di segno del passaggio dall’inverno alla primavera. Ma, fra i vari rituali e feste celebrati in territorio italiano, uno è molto interessante per il nostro discorso. Sto parlando della festa dell’orso di Mompantero, in Val di Susa che si svolge nel primo weekend del mese di febbraio, in concomitanza con i festeggiamenti di Santa Brigida e della Candelora.
Di Santa Brigida sappiamo che anche la Chiesa ha deciso di cancellarla dal novero dei santi. La sua biografia è troppo misteriosa e oscura e vieppiù legata all’antico sito di Kildare, in Irlanda, da dove ha preso il via il culto della santa. A Kildare o meglio a Cill Dare (la Chiesa della Quercia) era posto un tempio dedicato alla dea dal triplice volto in cui diciannove sacerdotesse vergini tenevano acceso il sacro fuoco. Con l’arrivo del cristianesimo il tempio venne convertito in un monastero cristiano ma il fuoco non si estinse per molti secoli, fino all’arrivo dei normanni la cui religiosità era più legata alla chiesa di Roma che non ai culti cristiani, ma ancora imbevuti di paganesimo, degli irlandesi. Dunque, Brigida era anticamente una dea del fuoco e della luce, dal triplice volto proprio come la dea trivia della Luna, la Ecate romana a cui spesso anche Diana viene associata. Non dimentichiamo che il nome Diana, la controparte romana di Artemide, deriva dalla stessa radice di Zeus e indica la luce, il giorno. Ma era anche una divinità solare come dimostra un oggetto legato alla sua persona, la cosiddetta croce di Santa Brigida la cui forma è molto simile alle piccole croci della pittura vascolare della Potnia Theron, simboli tristemente noti come svastiche e invece semplici simboli indoeuropei dei raggi solari. 


Negli stessi giorni della festa di Santa Brigida si svolge anche quella cristiana della Candelora. Ma anche qui bisogna risalire ad antichi culti pagani in cui si celebrava la festa del fuoco e il ciclo delle stagioni. Ai primi di febbraio si poteva scorgere i primi segni della primavera anche attraverso l’osservazione della luna. Calendae, da cui deriva anche il termine calendario, era il primo periodo di ogni mese secondo l’antica scansione lunare degli antichi romani per cui ogni mese iniziava con una nuova luna. La primavera segnava il nuovo anno, che infatti nella Roma arcaica cominciava in questo periodo e non a Gennaio, e la festa del fuoco celebrava la rinascita del sole dopo il buio dell’inverno.
Fino a questo punto, sembra che il nostro viaggio ci abbia fatto percorrere solo le vie terrestri. All’apparenza la luna e l’orsa appaiono connessi da culti pagani legati al ciclo delle stagioni e della natura. Ma allora come si spiega il primo dei miti che abbiamo presentato, quello della bella ninfa trasformata in orsa e successivamente in costellazione insieme allo sfortunato figlio?
E chi ha detto che la costellazione dell’Orsa non può essere collegata all’arrivo della primavera? Infatti, è proprio quando l’Orsa è al suo culmine nel cielo che torna la bella stagione, quando insomma l’Orsa esce dal suo letargo, sulla linea dell’orizzonte e alza la testa verso il cielo.
Cosa sia giunto prima, se il sonnacchioso orso che, con gli occhi ancora cisposi per il letargo, cerca la luna in cielo o la bella Callisto eternamente inseguita da suo figlio, trasformata in costellazione proprio dalla dea della luna, forse non lo sapremo mai.
Di certo, sulla figura dell’orsa c’è ancora molto da dire. Quando è stato nominato Arturo, in questo articolo, sono sicura che alcuni di voi saranno stati in trepida attesa di un più famoso eroe omonimo. Ma prendete questo articolo come un’introduzione a quanto verrà dopo sul mitico re di Camelot, Artù figlio di Pendragon.




giovedì 12 gennaio 2017

la via spezzata - Il ponte fra cielo e terra

In questo articolo era mia intenzione parlare dell’arcobaleno nei diversi miti ma, durante il percorso, la ricerca ha preso strade impreviste e mi sono imbattuta nelle antiche storie sulle vie che dal cielo portavano, in tempi remoti, gli dei a camminare sulla terra.
Il concetto non è affatto nuovo, del resto. Secondo la mitologia greca, ci fu un tempo, l’età dell’oro, in cui uomini e dei vivevano a stretto contatto. Questo legame, questa familiarità, con il passare delle ere venne meno a causa degli errori degli uomini, fino ad arrivare alla situazione attuale.
Il ricordo di questa condizione primigenia di beatitudine persiste in tutti gli antichi miti e, in alcuni casi, la strada per arrivare al cielo è ancora presente anche se destinata a pochi o soltanto ai defunti.
È il caso del ponte Cinvat, la via presente nella mitologia iranica, che permette alle anime di giungere al Monte di Salvezza.


 Il ponte corre sopra l’abisso infernale ed è largo fino a nove lance quando sopra di esso vi passano i giusti ma si restringe al passaggio dei malvagi fino a farli cadere sotto. Una montagna, il Monte Meru, è anche la sede di Indra, il dio indù padrone dell’arco. Il Monte Meru, dimora del dio, è anche identificato come uno dei paradisi, non il Nirvana, ma un luogo di delizie e piaceri.


 Attraverso una corda, detta dmu, tornavano invece i primi re del Tibet al cielo sottoforma di arcobaleni fino a quando la corda non venne spezzata da Grigum, non ne conosciamo il motivo, il primo dei re a essere seppellito sulla terra.
Benché la via verso il cielo sia presentata sotto l’aspetto di una corda, ecco che nel mito tibetano compare anche l’immagine dell’arcobaleno così come l’arco si trova tra gli attributi di Indra, il dio patrono del Monte Meru, il centro del mondo. Potrà sembrare strano al lettore ma nel nostro viaggio questi tre elementi, la via, il monte e l’arco(baleno) si troveranno molto spesso intrecciati insieme e, non sempre, saranno collegati al tema della morte.
Ad esempio, gli dei giapponesi Izanagi e Izanami scenderanno sulla terra attraverso il ponte, Ame-no-hashi-date, per dare inizio alla creazione del mondo ancora sommerso dal brodo primordiale.


 L’arcobaleno, invece, è presente nella mitologia cinese. Nuwa e Fuxi, coppia divina di fratello e sorella come Izanagi e Izagami, vengono spesso rappresentati come esseri semi-umani. Dalla vita in su sono un uomo e una donna ma dalla cintola in giù i loro corpi dragoneschi sono intrecciati insieme e ricordano molto da vicino i serpenti che circondano gli oceani della mitologia nordica. Per qualche motivo, il vecchio mondo venne distrutto e Nuwa mise un tappo nella crepa formato da una pietra vitrea di sette colori, l’arcobaleno appunto.


Nell’antico Egitto, Iside indossava un abito composto da sette stole di sette colori diversi. Il ricordo di questa caratteristica della dea sopravvisse nella danza dei sette veli. In questo caso il numero sette, come numero magico, indica i molteplici volti della dea, centrale per i culti egizi. Ma, se prendiamo in considerazione il fatto che Iside e Osiride erano anche divinità astrali è probabile che i sette veli rappresentino i pianeti del sistema solare. 


Un altro nome di Iside era Ishtar, letteralmente la dea del cerchio della vita ovvero dello Zodiaco. Ishtar indossava una collana con sette pietre identificata con l’arcobaleno. Questo ponte poteva diventare una via d’accesso o una barriera a seconda delle circostanze. Il dio del mare, irato con l’umanità, scatenò un diluvio e la dea Ishtar pose l’arcobaleno di fronte all’altare del dio in modo che non potesse più ricevere i sacrifici degli uomini ma i suoi devoti potevano raggiungere la selvezza eterna per quella stessa strada.
L’arcobaleno di Ishtar ci ricorda un altro arcobaleno spuntato dopo un altro diluvio, quello che Dio diede a Noè come prova del suo patto, della sua promessa di non scatenare più la sua ira sugli uomini. In effetti, il termine ebraico nel testo fa riferimento a un vero e proprio arco, cioè un’arma, sulle nubi interpretato come il fenomeno celeste dell’arcobaleno. De Santillana invece suggerisce che si tratti appunto di un arco e il testo faccia riferimento a un ben preciso segno celeste che potrebbe essere identificato con l’arco di Orione e che comunque abbiamo già visto ricorrere nella mitologia indù (Indra signore dell’arco e in Ishtar che pose un arco dopo il diluvio).


In ogni caso, l’arco biblico che sia a colori o che rappresenti una costellazione celeste, è simbolo del legame tra Dio e gli uomini e, in questo contesto, rientra perfettamente tra le immagini che abbiamo fin qui catalogato.
Nella Bibbia però è presente un’altra via, un altro passaggio verso il cielo e la salvezza, anche se si manifesta solo in sogno e solo una volta: la scala di Giacobbe. Con questa visione, l’antico patriarca ha assistito al continuo andirivieni degli angeli dal cielo alla terra e viceversa ma questa strada è percorribile anche dagli uomini giusti. Nella dottrina cabalistica la scala di Giacobbe è vista come un albero i cui rami si identificano con gli stadi della perfezione dell’anima che tende alla salvezza.


Il tema della scala, come via al cielo, ricorre anche nel Corano. Maometto, cavalcando il favoloso essere Buraq, sorvolò prima il baratro infernale, osservando le pene riservate ai dannati, e poi salì all’alto dei cieli fino alla visione di Dio in persona. Il viaggio viene compiuto dal Tempio Santo al Tempio Ultimo identificati rispettivamente con la Ka’Ba e il tempio di Gerusalemme.


Per gli antichi greci non esisteva un passaggio del genere. Il mondo degli dei e quello degli uomini sono del tutto separati, in tempi storici, ma in passato non sono mancate le eccezioni. Sappiamo che, nell’età degli eroi, questi esseri semidivini sono nati proprio dall’accoppiamento fra dei o dee e uomini o donne. Dunque, le divinità scendevano, un tempo, sulla terra per amare i mortali. Tralasciamo il fatto che molto spesso questi semidei non sono altro che ciò che rimane di antichi culti a divinità declassate e soffermiamoci su questo aspetto di famigliarità fra uomini e dei. Una vicinanza che era ancora più stretta in tempi più remoti. Nell’età dell’oro, infatti, uomini e dei vivevano a stretto contatto ma furono la follia e l’empietà dei mortali ad allontanare progressivamente i numi dalla loro vita.
In realtà, gli dei mantengono aperti vari canali di comunicazione con l’uomo. I sogni, le visioni, la divinazione, i segni della natura possono essere interpretati come messaggi divini. E ci sono alcune divinità, in particolare, a essere preposte al ruolo di messaggeri. Sono il dio Ermes/ Mercurio e la dea Iris o Iride.


Ed è proprio lei che rientra perfettamente in questa ricerca. La dea Iris infatti era identificata con l’arcobaleno anche se il suo nome probabilmente in origine significava forza. E, in effetti, Iris compare come messaggera in situazioni funeste, è portatrice di avvertimenti di morte, guerra, follia, violenza. Non è un caso se fu proprio lei ad avvertire Eracle della sua imminente follia che l’avrebbe portato a massacrare i suoi stessi figli. E non è ancora un caso se la ritroviamo solo nell’Iliade, il poema omerico della guerra, mentre è del tutto assente dall’Odissea.
Per comprendere bene questa figura poco nota bisogna ricostruirne l’albero genealogico. Iris è figlia di Taumante, divinità marina minore, figlio di Ponto e Gea. In effetti, se non fosse per i genitori, il nome Taumante potrebbe benissimo riferirsi al cielo. Infatti significa meraviglia, stupore, spesso interpretati in senso negativo, ma anche splendido. La madre di Iris, Elettra, ha un nome molto simile a quello del padre. Elettra infatti vuol dire brillante. Eppure, ancora una volta, questa dea sembra essere legata alla sfera acquatica dato che risulta essere figlia di Oceano.
Ma Oceano, divinità primordiale, è un concetto molto difficile da definire per noi uomini imbevuti di cultura scientifica. Oceano significa colui che circonda o colui che scorre veloce e si rifà all’idea che l’Oceano circondava la terra emersa. Ma, diversamente da Ponto, il mare vero e proprio, Oceano rappresentava le acque celesti e sotterranee, nel senso delle acque dell’emisfero australe. Oceano, più che una divinità marina, è una divinità astrale. 


Tanto è vero che Elettra, la brillante, genera Iris, la messaggera alata e le terribili Arpie, Ocipete, colei che vola veloce, e Aello, il vento di tempesta, due divinità anche loro dotate di ali e più legate all’aria, al cielo che al mare. Le Arpie sembrano apparentemente molto diverse dalla loro aggraziata sorella Iris. Sono creature mostruose, metà donna e metà uccello, e rapiscono le anime e i bambini. È chiaro il loro rapporto con l’Ade ma abbiamo anche detto che, nonostante il bell’aspetto, anche Iris è collegata alla morte, alla guerra, alla violenza. E, se non bastasse, la dea iridata è l’unica che può attingere, in ogni momento dell’anno, alle acque mortifere dello Stige.
Ora, nel mondo del vicino oriente, la dea dell’arco era Ishtar, colei che muove l’apsu, ovvero le acque primordiali corrispondenti all’Oceano dei Greci. L’arco di Ishtar, secondo i testi babilonesi, può essere identificato con la costellazione di Argo e del cane Maggiore che formavano appunto la costellazione dell’Arco. Nello zodiaco egizio di Dendera era la dea Satis a scoccare l’arco verso la stella Sirio. L’arco Keshet che abbiamo trovato, al principio del nostro percorso nella Bibbia e poi identificato con l’arcobaleno.
Di cosa si sta parlando, in effetti? Dell’inizio di una nuova età del mondo. Il diluvio ha messo fine alla vecchia era e l’arco è sorto nella nuova come ponte di comunicazione fra il divino e l’umano, come segno che il legame non verrà interrotto ancora per molto tempo.
È un’altra tradizione quella che ci parla invece del crollo di questo arco, o meglio di questo ponte. Uno dei miti più noti della cultura norrena è proprio quella del ponte Bifrost.


Il nome, tramandato da Snorri, significa la via tremula ma il ponte, in verità, si chiamava Asbru, semplicemente il ponte degli Aesir, gli dei. Era anche detto Bilrost, la via dai molti colori e, ogni giorno, gli Aesir lo attraversavano per scendere da Asgard a Yggdrasill, presso la fonte di Urthanbrunnr dove tengono assemblea. Solamente a Thor non è permesso attraversarlo perché lo brucerebbe con il suo carro infuocato e il dio del tuono è costretto a guadare ben tre fiumi per giungere al luogo dell’assemblea.
All’inizio del ponte fa la guardia Heimdallr, la sentinella degli dei, che veglia notte e giorno, in attesa del Ragnarok. Egli vive nella fortezza chiamata Himinbjorg, la montagna del cielo. Heimdallr è detto anche il misuratore, un modo simbolico per dire che a lui spetta il compito di descrivere e ordinare le rotte celesti. 


Ecco che risulta chiaro che stiamo ancora una volta parlando dei lunghi cicli astrali. Quanto l’Arco cadrà, questo mondo scomparirà e ne arriverà uno del tutto nuovo, con altri dei e altri cieli. Il Bifrost infatti, opera degli Aesir, è fatto per essere resistente ma è pur sempre destinato a crollare quando su di esso tenteranno di passare i figli di Muspell, i giganti che daranno il via al Ragnarok. La loro natura di fuoco, simile a quella di Thor, distruggerà il Bifrost e inizierà la caduta di questo mondo e degli stessi Aesir.

La via che porta al cielo dunque è una strada difficile da percorrere non solo per gli uomini ma per gli stessi dei. In alcune culture essa è ormai definitivamente compromessa, altrove permane come strada privilegiata per pochi eletti. Laddove però viene identificata con la figura dell’arco risulta più chiaro il suo legame con i cicli astrali della precessione degli equinozi. A ogni nuovo cielo corrisponde un nuovo mondo e un nuovo astro di riferimento. L’arco, come un ponte, collega il nostro attuale mondo al cielo dai tempi del diluvio. Chissà quale sarà il prossimo segno celeste a cui gli uomini potranno aggrapparsi come speranza di un legame con il divino.