Quando si pensa alla figura di
Ulisse, si ha subito di fronte un uomo maturo, abile navigatore, di sciolta
favella, uno di quegli uomini che sanno affascinare il pubblico, soprattutto
femminile, con i racconti avvincenti dei loro viaggi e, allo stesso tempo, in
grado di guadagnarsi la fedeltà della paziente moglie.
Nell’immaginario collettivo,
Ulisse è il re di una piccola isola, Itaca, posta a occidente della Grecia,
un’origine poco fortunata, quasi oscura, che però si riscatta grazie alle
prodezze compiute prima durante la guerra di Troia e poi come protagonista di
un poema tutto suo, l’Odissea. Secondo la scansione cronologica tradizionale,
infatti, l’Iliade è un poema più antico rispetto all’altro racconto omerico.
Molti indizi portano verso questa affermazione e non riguardano solo la
cronologia interna. Anche il modo di concepire la società, patriarcale e
strettamente legata al concetto di onore, la cosiddetta “cultura della
vergogna” sono aspetti che scompaiono o comunque si attenuano nell’Odissea.
Ulisse non si fa prendere facilmente dalla collera come Achille o Agamennone,
sempre pronti a difendere il proprio onore con la spada in mano e non combatte
per la propria patria solo per paura di come lo giudicherebbero gli altri, come
confessa Ettore alla moglie Andromaca. Altrimenti non comparirebbe sotto le
sembianze di un vecchio mendicante nella reggia da cui mancava da vent’anni e
non si lascerebbe prendere in giro dai pretendenti che occupavano abusivamente
la sua casa, insidiando sua moglie e umiliando suo figlio e il suo stesso nome.
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Argo incontra Ulisse |
Ulisse è il paziente, il saggio,
colui che trova sempre nella ragione la giusta svolta, la chiave del successo
delle proprie imprese. Eppure, secondo l’etimologia tradizionale, il suo nome
dovrebbe significare l’iroso, l’odiato. Sempre se Odisseo, il nome omerico
del nostro eroe, sia un termine di origine greca. Perché alcuni indizi
farebbero pensare il contrario. Odisseo, in molti dialetti greci, diventa
infatti Olysseus (da dove il nostro
Ulisse) dove il suono d diventa l o viceversa. Ma questo cambiamento di
suono non trova attestazioni nella lingua greca mentre potrebbe benissimo
suggerire un’origine pregreca del nome.
Sappiamo come alcuni personaggi
del mito, alcuni cosiddetti semidei o eroi della Grecia classica, non erano
altro che vecchie divinità “declassate”. Lo erano sicuramente Achille o la
stessa Elena. Lo è anche il nostro Ulisse che prima di essere impiegato come re
di un’oscura isoletta era, con molta probabilità, un dio solare.
Uno dei primi indizi risiede
nell’arma preferita dell’eroe, l’arco. Nell’Iliade quest’arma non compare mai
di certo perché per l’autore del poema era difficile inserirlo nei
combattimenti corpo a corpo che avvenivano davanti alle mura di Ilio. L’arco
comparirà nella materia iliadica, ma non in Omero, come arma di morte di
Achille ucciso da Paride che lo colpirà al tallone sotto la guida di Apollo.
Paride, eroe protetto da Apollo, dio della luce, guarda caso predilige l’arco.
Arco che viene suggerito anche dal nome del figlio più famoso di Ulisse,
Telemaco, colui che combatte da lontano.
Si sa che nei secoli bui del Medioevo, i secoli della cavalleria in armatura
pesante, l’arco era l’arma dei vigliacchi, di coloro che rifiutavano il
combattimento alla pari, faccia a faccia. L’arco è infatti l’arma di Robin
Hood, un bracconiere e fuorilegge. Ma nella Grecia classica, l’arco era l’arma
di Apollo ed è facile intuire il legame fra i dardi scoccati dall’arma e i
raggi del sole.
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la gara dell'arco |
Nella parte finale dell’Odissea,
il nostro eroe compirà la sua apparizione ufficiale di fronte ai suoi nemici
proprio tendendo un favoloso arco che nessun’altro può tendere a parte lui. La
freccia da lui scoccata passerà attraverso dodici cerchi in fila uno dietro
l’altro. Qualcuno potrebbe dirvi che il dodici è un numero che si ripete spesso
nel linguaggio delle favole ma non sarebbe altrettanto disponibile a spiegarvi
perché.
Nel caso di Ulisse, il perché è
abbastanza chiaro e gli indizi sono presenti già nella narrazione dell’episodio.
È proprio durante il solstizio d’estate che avviene la strage, che Ulisse torna
in tutto il suo splendore facendo passare alla sua freccia le dodici scuri che,
a questo punto, rappresentano le dodici case dello zodiaco o, se volete, i
dodici mesi dell’anno. L’arco è legato al sole non solo per la similitudine
raggi solari/frecce ma anche per lo strumento con cui si accendeva il fuoco, un
piccolo punteruolo di legno che sfregava contro la pietra mosso proprio da un
archetto.
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la strage dei Proci |
Il giorno precedente alla strage,
Ulisse e suo figlio nascondo le armi che abbellivano le pareti della sala dei
banchetti in modo che l’indomani i Proci si trovassero disarmati. Le custodiscono
in una sala che Omero chiama talamo, una sorta di camera ipogea eppure Telemaco
si stupisce, ma solo lui, di quanta luce vi sia in quella stanza. Le pareti
brillano: “Padre mio, quale spettacolo vedono mai i miei occhi: mi sembra che
le mura di tutta la casa, e le belle campate, le travi di pino e le alte
colonne splendano come fuoco che arde. Qui dentro c’è uno dei numi che
possiedono il cielo vastissimo.”
È sera inoltrata, tutti sono
andati a dormire eppure quella stanza brilla di luce. Un mistero? Affatto. Il giorno
dopo proprio il superbo Antinoo ci comunica che: “Oggi, in paese, c’è la festa
sacra di Apollo.” Diventa abbastanza chiaro che si sta parlando del solstizio d’estate.
Il sole torna in tutto il suo splendore, nella sua casa, e distrugge con i suoi
dardi infuocati gli ultimi nemici, gli oscuri resti del suo nemico inverno.
Ulisse dunque era in passato una
divinità solare. Gli indizi non sono limitati all’episodio della strage dei
Proci, certamente, né al nome del figlio o all’uso dell’arco. Gli indizi sono
disseminati in tutto il poema. Non è in questa sede che possiamo dissertare dei
frammenti di questa verità ma mi piacerebbe iniziare il nostro viaggio insieme
al dio Ulisse partendo da una delle tappe meno conosciute, la terra dei
Lestrigoni.
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I Lestrigoni attaccano le navi di Ulisse, affresco romano |
Volendo riassumere brevemente
l’episodio, Ulisse ha da poco lasciato l’isola fluttuante del benevolo Eolo il
quale ha donato al nostro eroe un otre in cui aveva rinchiuso tutti i venti
tranne Zefiro, favorevole al suo ritorno a Itaca. I compagni di Ulisse però
invidiosi e sospettosi aprirono l’otre e scatenarono una tempesta che provocò
la morte di molti di loro e molti giorni di viaggio in mare senza governo delle
navi. Infine, dopo sei giorni, al settimo giunsero in questo luogo sconosciuto
che Omero chiama testualmente “la scoscesa rocca di Lamo, Telepilo
Lestrigonia”.
I geografi dell’antichità come
pure i moderni studiosi si sono disperati cercando di localizzare la terra dei
Lestrigoni in base agli scarsi indizi di Omero. Scarsi e alquanto enigmatici.
Si è persino giunti a dire che Omero non sapeva nulla di geografia perché le
descrizioni dei luoghi nei suoi poemi non corrispondono a quelli reali. Sempre
che debbano corrispondere a luoghi reali.
Partiamo dal nome del luogo:
Lamo. La parola richiama da subito l’avidità, la golosità degli abitanti
dell’isola che infatti non si cibano d’altro che di carne umana. Più difficile
da interpretare è il secondo dei nomi: Telepilo. Si tratta di un nome dal
significato trasparente, la porta lontana, collegato al nome del luogo
Lestrigonia. Nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione convincente di
quest’ultimo nome che potrebbe quindi essere di nuovo pregreco come quello di
Ulisse. Ma la porta lontana potrebbe aiutarci in qualche modo.
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dal Silmarillion |
Parmenide, nel suo poema
filosofico, racconta di essere stato trasportato dalle cavalle del carro del
sole fino a un’enorme porta di bronzo, la porta che divide i sentieri della
Notte e del Giorno. Il viaggio del filosofo verso la verità procede attraverso
questa porta eretta nell’etere. Insomma, essa “fluttua” in mezzo al cielo. Guarda
caso, Notte e Giorno sono scritti in maiuscolo a sottolineare che non si parla
del tempo degli uomini che si avvicenda sulla terra ma di due personificazioni,
della versione divina di essi. Il Giorno e la Notte si avvicendano nel mondo
passando per questa porta che non è un’invenzione di Parmenide ma appare ancora
prima nell’Odissea. Tanto vicini a Telepilo, alla porta lontana, sono i
sentieri del Giorno e della Notte che un pastore potrebbe guadagnare doppio
stipendio facendo pascolare lì vicino il suo gregge. Sono le parole di Omero
difficili da spiegare se interpretate in senso letterale. Molti hanno pensato
che nella terra dei Lestrigoni le giornate sono molto più lunghe, forse si
tratterebbe di un luogo dell’estremo nord dove in estate il sole non tramonta
mai. Bene, ma allora perché ricorrere all'immagine della porta? Perché il
riferimento al Giorno e alla Notte? Forse perché quella è la porta del tempo,
una delle porte cosmiche che abitano il cielo, l’Okeanos di cui abbiamo già
parlato, il grande mare di stelle e acqua che circonda il cosmo. Questo mare è
costellato di mondi molto diversi e lontani dal nostro, mondi con regole del
tutto differenti, in cui ci si può imbattere in popoli che mangiano carni
umane, creature mostruose e gigantesche che vivono a ridosso di queste porte. Un
ipotetico pastore astuto potrebbe passare di qua e di là dalla porta cosmica
per trovare sempre il Giorno e quindi guadagnare doppio stipendio.
Se non è ancora chiaro,
se il riferimento a Parmenide non è sufficiente, si può sempre ricorrere a Esiodo.
Atlante regge il cielo nell’estremo Occidente, al di là dell’Okeanos, là “dove Notte
e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran limitare di
bronzo, l’uno per scendere dentro l’altro attraverso la porta esce, né
mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l’uno fuori della
casa la terra percorre e l’altro dentro la casa aspetta l’ora del suo viaggio
fin che essa venga”. Siamo nella Teogonia e nei versi precedenti si parla
proprio della terribile casa della Notte.
Sembra chiaro che
Parmenide, Esiodo e lo stesso Omero facciano riferimento a una conoscenza
comune, un topos letterario ben preciso.
Descrivere con queste
precise parole la Lestrigonia dalla lontana porta non è solo un modo per
condurre il lettore in un luogo remoto, selvaggio, in una geografia
imprecisata. È proprio il concetto di geografia che è sbagliato perché qui non
siamo sulla terra, sulla terra calcata dagli uomini, quella che i norreni
chiamerebbero Midgard, la terra di mezzo. Qui, in Lestrigonia, siamo lontani
certo, ma così lontani che abbiamo varcato persino l’Okeanos e stiamo navigando
sul vasto mare del cielo.
Sebbene un cannibale, il
re Antifate è un “profeta” come afferma il suo stesso nome, colui che parla per
la bocca di un dio. Quale dio è difficile da riconoscere, quale degli dei
olimpici lascerebbe compiere tale scempio? Quale degli dei olimpici lascerebbe
che quasi tutti i compagni di Ulisse sopravvissuti fino a questo momento
morissero in quel modo, cannibalizzati da questa gente?
Nessuno, ovvio. Non credo
che nemmeno Poseidone potesse. Forse però gli dei primordiali che abitavano
vicino alle porte della Notte sì. Parliamo della figlia del Chaos, sorella di
Erebo, l’eterna notte infernale, parliamo della madre del Giorno, come la dea Nott norrena, ma anche madre del Sonno e della Morte,
delle vendicative Erinni e di Eris, la dea che diede inizio alla guerra di
Troia. È probabile che i Lestrigoni facciano parte delle sue schiere. È quindi
probabile che Ulisse navigasse molto lontano dall’assolato Mediterraneo e
percorresse le immense distese del cosmo fin dove nemmeno gli dei olimpici avevano
l’ardire di spingersi.
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