lunedì 23 gennaio 2017

Il mito dell'orsa fra culti astrali e feste rurali

Callisto, la bellissima, era una ninfa della corte di Artemide. Come spesso capitava a creature così belle, Zeus la desiderò e da questa unione nacque un bambino, Arturo. Artemide, però, infuriata con la ninfa che non aveva rispettato il voto di castità imposto a tutto il suo corteggio, trasformò Callisto in un’orsa. Il piccolo Arturo crebbe come pastore e cacciatore e un giorno si imbatté in sua madre. Pur non riconoscendola, Arturo tentennò di fronte alla bestia, incerto se ucciderla o meno. Zeus lo tolse dall’imbarazzo trasformando il giovane e sua madre nelle costellazioni del Bootes e dell’Orsa Maggiore.

La costellazione di Bootes. Hevelius

Un giorno Ecuba fece un sogno sul bambino che teneva in grembo. Sognò che avrebbe partorito una torcia infuocata che avrebbe distrutto la città di Troia di cui era regina. Terrorizzata, rivelò il contenuto dell’incubo al marito Priamo e insieme decisero che, per il bene della città, il nascituro doveva essere abbandonato. Il luogo scelto fu il Monte Ida dove i genitori si aspettavano che il bambino sarebbe morto in breve di stenti. Invece, il piccolo Paride venne cresciuto da un’orsa e così, negli anni divenne un bel giovinetto. Lo stesso fanciullo che, con il giudizio delle dee e il rapimento di Elena, avrebbe dato il via a una guerra che avrebbe distrutto la sua città natale, Troia.

Paride consegnato ai pastori . Camuccini

Atalanta, l’instancabile, quando nacque non fece la felicità di suo padre Scheneo, tutt’altro. Il buon padre voleva un maschietto, come recitava la sigla di un famoso cartone animato. Ma nel caso di Scheneo, egli non tentò di allevare sua figlia come un uomo, piuttosto l’abbandonò nella foresta dove venne allevata, guarda caso, da un’orsa. Più tardi, Artemide (sempre circondata da orse!), decise di prendersi cura della bambina che crebbe insieme alle sue ninfe, dedicando la sua vita alla caccia e pronunciando il doveroso voto di castità.

Atalanta e Ippomene. Guido Reni

Se consideriamo tutti e tre i miti, ritroviamo un elemento in comune che è la presenza dell’orsa. Nel caso del primo mito, l’orsa è anche celebrata, alla fine, nella sua trasformazione in costellazione, negli altri l’orsa rappresenta una fase primordiale dello sviluppo dell’eroe o dell’eroina. In due dei tre miti è presente anche la dea Artemide, una delle dee dal carattere più forte, la più intransigente sotto il profilo della condotta sessuale. Artemide impone la castità sia ad Atalanta, che poi se ne libererà con uno stratagemma più o meno voluto, che alla povera Callisto che, pur essendo vittima di violenza, verrà ugualmente punita dall’inflessibile dea.
Solo nel mito di Paride Artemide non compare né quando l’eroe viene abbandonato appena nato né quando dovrà scegliere la dea più bella. Artemide non fa parte della triade divina però la sua assenza non deve trarci in inganno. Abbiamo già parlato del Monte Ida, anzi del doppio monte Ida e del significato del suo nome. Sappiamo che era sede di culto della dea madre e Artemide, la Potnia Theron, la signora degl animali selvatici è chiaramente una delle incarnazioni della Madre.

Artemide- Potnia Theron. Pittura vascolare Grecia arcaica

C’è un altro punto che potrebbe rendere questo collegamento più certo. Se guardiamo all’etimologia, Arturo può condividere la sua origine con il termine islandese art o il gallese arth. In greco orso si diceva arktos da cui anche la parola artico e Arturo significherebbe guardiano dell’orsa: arktos e ouros. La maggior parte degli studiosi però rigettano l’ipotesi che il nome Artemide abbia a che fare con la stessa radice anche se poi non sono concordi nel trovare il vero significato di questo nome.
Però, tra i popoli celtici era venerata una dea di nome Artio. Lo dimostrano alcune iscrizioni latine di cui una trovata a Berna il cui simbolo araldico è appunto l’orso (vedi il nome Bjorn). Artio è raffigurata su di un carro, accanto a un grande orso. Artio è la dea della caccia, dei frutti e dell’abbondanza e il fatto che la mittente della dedica fosse una donna, Licinia Sabinilla, lascia immaginare che Artio condividesse con la collega Artemide anche la protezione delle donne e dei loro frutti, i bambini. Da qui probabilmente l’insistenza dei miti greci nel proporre spesso un’orsa come prima nutrice di piccoli d’uomo. Dopotutto, non bisogna essere esperti di etologia per sapere che le orse sono molto protettive con i loro cuccioli.


Il collegamento Orsa/Luna non è così peregrino come potrebbe sembrare a un primo impatto. Secondo le conoscenze di molte civiltà contadine, verso i primi di febbraio l’orso si svegliava appena dal suo letargo, usciva dalla tana e osservava il cielo notturno. Se la luna era piena, allora poteva dormire altri quaranta giorni, ma se la luna non era visibile, allora la primavera era alle porte.
Ci sono molte feste che celebrano questo legame fra l’orso e la luna sia nel nord Italia, in Valle d’Aosta e in Piemonte, che in Sicilia, a Saponara, dove proprio per Carnevale si svolge un corteo con un uomo travestito da orso. Anche in Inghilterra, nel Fenland, l’inizio dell’anno agricolo comincia con un uomo travestito da orso che gira per le case portando il lieto annuncio. Non mancano poi culti dedicati a Sant’Orso, un nome che nasconde il ricordo di riti pagani più antichi.

Carnevale di Saponara. L'uomo - orso

All’apparenza, sono semplici culti rurali legati ai cicli della natura, in cui la luna riveste il ruolo di segno del passaggio dall’inverno alla primavera. Ma, fra i vari rituali e feste celebrati in territorio italiano, uno è molto interessante per il nostro discorso. Sto parlando della festa dell’orso di Mompantero, in Val di Susa che si svolge nel primo weekend del mese di febbraio, in concomitanza con i festeggiamenti di Santa Brigida e della Candelora.
Di Santa Brigida sappiamo che anche la Chiesa ha deciso di cancellarla dal novero dei santi. La sua biografia è troppo misteriosa e oscura e vieppiù legata all’antico sito di Kildare, in Irlanda, da dove ha preso il via il culto della santa. A Kildare o meglio a Cill Dare (la Chiesa della Quercia) era posto un tempio dedicato alla dea dal triplice volto in cui diciannove sacerdotesse vergini tenevano acceso il sacro fuoco. Con l’arrivo del cristianesimo il tempio venne convertito in un monastero cristiano ma il fuoco non si estinse per molti secoli, fino all’arrivo dei normanni la cui religiosità era più legata alla chiesa di Roma che non ai culti cristiani, ma ancora imbevuti di paganesimo, degli irlandesi. Dunque, Brigida era anticamente una dea del fuoco e della luce, dal triplice volto proprio come la dea trivia della Luna, la Ecate romana a cui spesso anche Diana viene associata. Non dimentichiamo che il nome Diana, la controparte romana di Artemide, deriva dalla stessa radice di Zeus e indica la luce, il giorno. Ma era anche una divinità solare come dimostra un oggetto legato alla sua persona, la cosiddetta croce di Santa Brigida la cui forma è molto simile alle piccole croci della pittura vascolare della Potnia Theron, simboli tristemente noti come svastiche e invece semplici simboli indoeuropei dei raggi solari. 


Negli stessi giorni della festa di Santa Brigida si svolge anche quella cristiana della Candelora. Ma anche qui bisogna risalire ad antichi culti pagani in cui si celebrava la festa del fuoco e il ciclo delle stagioni. Ai primi di febbraio si poteva scorgere i primi segni della primavera anche attraverso l’osservazione della luna. Calendae, da cui deriva anche il termine calendario, era il primo periodo di ogni mese secondo l’antica scansione lunare degli antichi romani per cui ogni mese iniziava con una nuova luna. La primavera segnava il nuovo anno, che infatti nella Roma arcaica cominciava in questo periodo e non a Gennaio, e la festa del fuoco celebrava la rinascita del sole dopo il buio dell’inverno.
Fino a questo punto, sembra che il nostro viaggio ci abbia fatto percorrere solo le vie terrestri. All’apparenza la luna e l’orsa appaiono connessi da culti pagani legati al ciclo delle stagioni e della natura. Ma allora come si spiega il primo dei miti che abbiamo presentato, quello della bella ninfa trasformata in orsa e successivamente in costellazione insieme allo sfortunato figlio?
E chi ha detto che la costellazione dell’Orsa non può essere collegata all’arrivo della primavera? Infatti, è proprio quando l’Orsa è al suo culmine nel cielo che torna la bella stagione, quando insomma l’Orsa esce dal suo letargo, sulla linea dell’orizzonte e alza la testa verso il cielo.
Cosa sia giunto prima, se il sonnacchioso orso che, con gli occhi ancora cisposi per il letargo, cerca la luna in cielo o la bella Callisto eternamente inseguita da suo figlio, trasformata in costellazione proprio dalla dea della luna, forse non lo sapremo mai.
Di certo, sulla figura dell’orsa c’è ancora molto da dire. Quando è stato nominato Arturo, in questo articolo, sono sicura che alcuni di voi saranno stati in trepida attesa di un più famoso eroe omonimo. Ma prendete questo articolo come un’introduzione a quanto verrà dopo sul mitico re di Camelot, Artù figlio di Pendragon.




giovedì 12 gennaio 2017

la via spezzata - Il ponte fra cielo e terra

In questo articolo era mia intenzione parlare dell’arcobaleno nei diversi miti ma, durante il percorso, la ricerca ha preso strade impreviste e mi sono imbattuta nelle antiche storie sulle vie che dal cielo portavano, in tempi remoti, gli dei a camminare sulla terra.
Il concetto non è affatto nuovo, del resto. Secondo la mitologia greca, ci fu un tempo, l’età dell’oro, in cui uomini e dei vivevano a stretto contatto. Questo legame, questa familiarità, con il passare delle ere venne meno a causa degli errori degli uomini, fino ad arrivare alla situazione attuale.
Il ricordo di questa condizione primigenia di beatitudine persiste in tutti gli antichi miti e, in alcuni casi, la strada per arrivare al cielo è ancora presente anche se destinata a pochi o soltanto ai defunti.
È il caso del ponte Cinvat, la via presente nella mitologia iranica, che permette alle anime di giungere al Monte di Salvezza.


 Il ponte corre sopra l’abisso infernale ed è largo fino a nove lance quando sopra di esso vi passano i giusti ma si restringe al passaggio dei malvagi fino a farli cadere sotto. Una montagna, il Monte Meru, è anche la sede di Indra, il dio indù padrone dell’arco. Il Monte Meru, dimora del dio, è anche identificato come uno dei paradisi, non il Nirvana, ma un luogo di delizie e piaceri.


 Attraverso una corda, detta dmu, tornavano invece i primi re del Tibet al cielo sottoforma di arcobaleni fino a quando la corda non venne spezzata da Grigum, non ne conosciamo il motivo, il primo dei re a essere seppellito sulla terra.
Benché la via verso il cielo sia presentata sotto l’aspetto di una corda, ecco che nel mito tibetano compare anche l’immagine dell’arcobaleno così come l’arco si trova tra gli attributi di Indra, il dio patrono del Monte Meru, il centro del mondo. Potrà sembrare strano al lettore ma nel nostro viaggio questi tre elementi, la via, il monte e l’arco(baleno) si troveranno molto spesso intrecciati insieme e, non sempre, saranno collegati al tema della morte.
Ad esempio, gli dei giapponesi Izanagi e Izanami scenderanno sulla terra attraverso il ponte, Ame-no-hashi-date, per dare inizio alla creazione del mondo ancora sommerso dal brodo primordiale.


 L’arcobaleno, invece, è presente nella mitologia cinese. Nuwa e Fuxi, coppia divina di fratello e sorella come Izanagi e Izagami, vengono spesso rappresentati come esseri semi-umani. Dalla vita in su sono un uomo e una donna ma dalla cintola in giù i loro corpi dragoneschi sono intrecciati insieme e ricordano molto da vicino i serpenti che circondano gli oceani della mitologia nordica. Per qualche motivo, il vecchio mondo venne distrutto e Nuwa mise un tappo nella crepa formato da una pietra vitrea di sette colori, l’arcobaleno appunto.


Nell’antico Egitto, Iside indossava un abito composto da sette stole di sette colori diversi. Il ricordo di questa caratteristica della dea sopravvisse nella danza dei sette veli. In questo caso il numero sette, come numero magico, indica i molteplici volti della dea, centrale per i culti egizi. Ma, se prendiamo in considerazione il fatto che Iside e Osiride erano anche divinità astrali è probabile che i sette veli rappresentino i pianeti del sistema solare. 


Un altro nome di Iside era Ishtar, letteralmente la dea del cerchio della vita ovvero dello Zodiaco. Ishtar indossava una collana con sette pietre identificata con l’arcobaleno. Questo ponte poteva diventare una via d’accesso o una barriera a seconda delle circostanze. Il dio del mare, irato con l’umanità, scatenò un diluvio e la dea Ishtar pose l’arcobaleno di fronte all’altare del dio in modo che non potesse più ricevere i sacrifici degli uomini ma i suoi devoti potevano raggiungere la selvezza eterna per quella stessa strada.
L’arcobaleno di Ishtar ci ricorda un altro arcobaleno spuntato dopo un altro diluvio, quello che Dio diede a Noè come prova del suo patto, della sua promessa di non scatenare più la sua ira sugli uomini. In effetti, il termine ebraico nel testo fa riferimento a un vero e proprio arco, cioè un’arma, sulle nubi interpretato come il fenomeno celeste dell’arcobaleno. De Santillana invece suggerisce che si tratti appunto di un arco e il testo faccia riferimento a un ben preciso segno celeste che potrebbe essere identificato con l’arco di Orione e che comunque abbiamo già visto ricorrere nella mitologia indù (Indra signore dell’arco e in Ishtar che pose un arco dopo il diluvio).


In ogni caso, l’arco biblico che sia a colori o che rappresenti una costellazione celeste, è simbolo del legame tra Dio e gli uomini e, in questo contesto, rientra perfettamente tra le immagini che abbiamo fin qui catalogato.
Nella Bibbia però è presente un’altra via, un altro passaggio verso il cielo e la salvezza, anche se si manifesta solo in sogno e solo una volta: la scala di Giacobbe. Con questa visione, l’antico patriarca ha assistito al continuo andirivieni degli angeli dal cielo alla terra e viceversa ma questa strada è percorribile anche dagli uomini giusti. Nella dottrina cabalistica la scala di Giacobbe è vista come un albero i cui rami si identificano con gli stadi della perfezione dell’anima che tende alla salvezza.


Il tema della scala, come via al cielo, ricorre anche nel Corano. Maometto, cavalcando il favoloso essere Buraq, sorvolò prima il baratro infernale, osservando le pene riservate ai dannati, e poi salì all’alto dei cieli fino alla visione di Dio in persona. Il viaggio viene compiuto dal Tempio Santo al Tempio Ultimo identificati rispettivamente con la Ka’Ba e il tempio di Gerusalemme.


Per gli antichi greci non esisteva un passaggio del genere. Il mondo degli dei e quello degli uomini sono del tutto separati, in tempi storici, ma in passato non sono mancate le eccezioni. Sappiamo che, nell’età degli eroi, questi esseri semidivini sono nati proprio dall’accoppiamento fra dei o dee e uomini o donne. Dunque, le divinità scendevano, un tempo, sulla terra per amare i mortali. Tralasciamo il fatto che molto spesso questi semidei non sono altro che ciò che rimane di antichi culti a divinità declassate e soffermiamoci su questo aspetto di famigliarità fra uomini e dei. Una vicinanza che era ancora più stretta in tempi più remoti. Nell’età dell’oro, infatti, uomini e dei vivevano a stretto contatto ma furono la follia e l’empietà dei mortali ad allontanare progressivamente i numi dalla loro vita.
In realtà, gli dei mantengono aperti vari canali di comunicazione con l’uomo. I sogni, le visioni, la divinazione, i segni della natura possono essere interpretati come messaggi divini. E ci sono alcune divinità, in particolare, a essere preposte al ruolo di messaggeri. Sono il dio Ermes/ Mercurio e la dea Iris o Iride.


Ed è proprio lei che rientra perfettamente in questa ricerca. La dea Iris infatti era identificata con l’arcobaleno anche se il suo nome probabilmente in origine significava forza. E, in effetti, Iris compare come messaggera in situazioni funeste, è portatrice di avvertimenti di morte, guerra, follia, violenza. Non è un caso se fu proprio lei ad avvertire Eracle della sua imminente follia che l’avrebbe portato a massacrare i suoi stessi figli. E non è ancora un caso se la ritroviamo solo nell’Iliade, il poema omerico della guerra, mentre è del tutto assente dall’Odissea.
Per comprendere bene questa figura poco nota bisogna ricostruirne l’albero genealogico. Iris è figlia di Taumante, divinità marina minore, figlio di Ponto e Gea. In effetti, se non fosse per i genitori, il nome Taumante potrebbe benissimo riferirsi al cielo. Infatti significa meraviglia, stupore, spesso interpretati in senso negativo, ma anche splendido. La madre di Iris, Elettra, ha un nome molto simile a quello del padre. Elettra infatti vuol dire brillante. Eppure, ancora una volta, questa dea sembra essere legata alla sfera acquatica dato che risulta essere figlia di Oceano.
Ma Oceano, divinità primordiale, è un concetto molto difficile da definire per noi uomini imbevuti di cultura scientifica. Oceano significa colui che circonda o colui che scorre veloce e si rifà all’idea che l’Oceano circondava la terra emersa. Ma, diversamente da Ponto, il mare vero e proprio, Oceano rappresentava le acque celesti e sotterranee, nel senso delle acque dell’emisfero australe. Oceano, più che una divinità marina, è una divinità astrale. 


Tanto è vero che Elettra, la brillante, genera Iris, la messaggera alata e le terribili Arpie, Ocipete, colei che vola veloce, e Aello, il vento di tempesta, due divinità anche loro dotate di ali e più legate all’aria, al cielo che al mare. Le Arpie sembrano apparentemente molto diverse dalla loro aggraziata sorella Iris. Sono creature mostruose, metà donna e metà uccello, e rapiscono le anime e i bambini. È chiaro il loro rapporto con l’Ade ma abbiamo anche detto che, nonostante il bell’aspetto, anche Iris è collegata alla morte, alla guerra, alla violenza. E, se non bastasse, la dea iridata è l’unica che può attingere, in ogni momento dell’anno, alle acque mortifere dello Stige.
Ora, nel mondo del vicino oriente, la dea dell’arco era Ishtar, colei che muove l’apsu, ovvero le acque primordiali corrispondenti all’Oceano dei Greci. L’arco di Ishtar, secondo i testi babilonesi, può essere identificato con la costellazione di Argo e del cane Maggiore che formavano appunto la costellazione dell’Arco. Nello zodiaco egizio di Dendera era la dea Satis a scoccare l’arco verso la stella Sirio. L’arco Keshet che abbiamo trovato, al principio del nostro percorso nella Bibbia e poi identificato con l’arcobaleno.
Di cosa si sta parlando, in effetti? Dell’inizio di una nuova età del mondo. Il diluvio ha messo fine alla vecchia era e l’arco è sorto nella nuova come ponte di comunicazione fra il divino e l’umano, come segno che il legame non verrà interrotto ancora per molto tempo.
È un’altra tradizione quella che ci parla invece del crollo di questo arco, o meglio di questo ponte. Uno dei miti più noti della cultura norrena è proprio quella del ponte Bifrost.


Il nome, tramandato da Snorri, significa la via tremula ma il ponte, in verità, si chiamava Asbru, semplicemente il ponte degli Aesir, gli dei. Era anche detto Bilrost, la via dai molti colori e, ogni giorno, gli Aesir lo attraversavano per scendere da Asgard a Yggdrasill, presso la fonte di Urthanbrunnr dove tengono assemblea. Solamente a Thor non è permesso attraversarlo perché lo brucerebbe con il suo carro infuocato e il dio del tuono è costretto a guadare ben tre fiumi per giungere al luogo dell’assemblea.
All’inizio del ponte fa la guardia Heimdallr, la sentinella degli dei, che veglia notte e giorno, in attesa del Ragnarok. Egli vive nella fortezza chiamata Himinbjorg, la montagna del cielo. Heimdallr è detto anche il misuratore, un modo simbolico per dire che a lui spetta il compito di descrivere e ordinare le rotte celesti. 


Ecco che risulta chiaro che stiamo ancora una volta parlando dei lunghi cicli astrali. Quanto l’Arco cadrà, questo mondo scomparirà e ne arriverà uno del tutto nuovo, con altri dei e altri cieli. Il Bifrost infatti, opera degli Aesir, è fatto per essere resistente ma è pur sempre destinato a crollare quando su di esso tenteranno di passare i figli di Muspell, i giganti che daranno il via al Ragnarok. La loro natura di fuoco, simile a quella di Thor, distruggerà il Bifrost e inizierà la caduta di questo mondo e degli stessi Aesir.

La via che porta al cielo dunque è una strada difficile da percorrere non solo per gli uomini ma per gli stessi dei. In alcune culture essa è ormai definitivamente compromessa, altrove permane come strada privilegiata per pochi eletti. Laddove però viene identificata con la figura dell’arco risulta più chiaro il suo legame con i cicli astrali della precessione degli equinozi. A ogni nuovo cielo corrisponde un nuovo mondo e un nuovo astro di riferimento. L’arco, come un ponte, collega il nostro attuale mondo al cielo dai tempi del diluvio. Chissà quale sarà il prossimo segno celeste a cui gli uomini potranno aggrapparsi come speranza di un legame con il divino.